Il Po non è solo il più lungo tra i fiumi italiani: la sua stratificazione storica e culturale ne fa uno dei più grandi tesori nazionali. Percorrerne il corso è quindi un’esplorazione non soltanto geografica, ma anche storica e culturale.
Di Andrea Carpi & redazione Chirone
In realtà il Po è un’isola. Un’isola culturale, in primo luogo, e un’isola geografica. Nei suoi oltre 650 chilometri, il Po bagna quattro grandi regioni, ascolta in dialetti diversi le dispute degli anziani in cerca di un po’ di sole o le chiacchiere esili di giovani innamorati scesi in golena, annusa i profumi – a volte grassi, a volte delicati – di cucine diverse, sfiora borghi e monumenti che hanno storie disparate. Ma ovunque, nelle città come nei borghi, nelle campagne, sul mare come sulle Alpi, chi vive il Po ha un rapporto con il fiume, un dialogo, un legame che è comune da Pian del Re alla sacca di Goro. Il Po è un punto cardinale, l’orizzonte sicuro, quello che è il mare per chi in riva al mare ci nasce e ci vive. Il Po è storie da raccontare, è tradizioni di gente e di famiglia, il Po è case e palazzi, è l’amico di quasi tutti i giorni e il nemico pericoloso, scuro, torbido e indomabile dei giorni peggiori.
Il fiume e gli antichi
Per i romani era Padus, per i greci Pàdos mentre a occidente, dove nasceva e percorreva i suoi primi chilometri, i liguri lo chiamavano Bodincus. Sulle sue sponde si succedettero, nei secoli, numerosi insediamenti; alcuni furono abbandonati (per esempio Industria, città romana adagiata sulle rive piemontesi) altri si sono trasformati in città e in paesi ancora oggi abitati, come Piacenza o Cremona, colonie romane.
I Goti avean già raccolte in Liguria e messe nel Po barche in gran numero nell’intento di caricarle di grano e di altre vettovaglie e dirigerle a Ravenna; ma in quel momento l’acqua di questo fiume era tanto diminuita che fu affatto impossibile navigare.
Sono proprio le fonti antiche a conservare i primi ricordi di questa lunghissima «autostrada d’acqua». Così se il greco Polibio (206-124 a.C.) scrisse che il fiume si poteva risalire, ai suoi tempi, per circa duemila stadi (più o meno 350 km), Plinio il vecchio (23-79 d.C.) nella sua Naturalis historia annotò come il Po fosse percorribile da Torino al mare. La navigazione non escludeva poi i fiumi immissari ed emissari, che davano vita a una fitta rete di collegamenti, ampliata ulteriormente da canali artificiali. Un sistema capillare e di vitale importanza: ancora nel V secolo d.C., durante il «disfacimento» dell’impero, risultano attive le «navi corriera», incaricate del trasporto di persone tra Pavia e Ravenna.
Oltre a merci e persone, le acque del fiume furono solcate da eserciti. Durante la guerra greco gotica (535-553 d.C.) il Po svolse un ruolo cruciale durante l’assedio bizantino di Ravenna. Racconta Procopio che «occupata […] Osimo, Belisario, anelando all’assedio di Ravenna, volse colà tutto l’esercito. […] I Goti avean già raccolte in Liguria e messe nel Po barche in gran numero nell’intento di caricarle di grano e di altre vettovaglie e dirigerle a Ravenna; ma in quel momento l’acqua di questo fiume era tanto diminuita che fu affatto impossibile navigare finché, sopraggiunti, i Romani s’impossessarono della barche e del loro carico. Poco dopo il fiume, tornato al suo livello ordinario, ridivenne navigabile; un fatto tale mai non udimmo essere in quel fiume avvenuto» (Procopio, La guerra gotica, II, 28).
Scendendo lungo il fiume
Con il succedersi dei secoli le rive del Po hanno continuato ad arricchirsi di paesi, abbazie, personaggi e tradizioni: una ricca stratificazione storica avvertibile ancora oggi. Ci sono infatti luoghi come Fontanetto Po (VC) dove il fiume si congiunge alla «cultura del riso», Sartirana (PV) che s’impone con il suo castello, Calendasco (PC) antico porto fluviale medievale, utilizzato dai pellegrini in viaggio verso Roma. Spostandosi lungo il corso del fiume, gli argini offrono una disseminazione di borghi e castelli, di tradizioni agricole e culinarie. Zibello (PR), per esempio, è una delle piccole capitali della gastronomia italiana. In questo piccolo borgo vicino all’argine viene stagionato uno dei salami più pregiati della Penisola, festeggiato, ogni anno a giugno, da un grandissimo evento.
A San Daniele Po (CR) c’è invece lo straordinario Museo paleoantropologico del Po; qui si possono ammirare le cascine fortificate, i bodri, le verdi aree golenali e i curiosi campi baulati. A una trentina di chilometri sorge la reggia di Colorno, scrigno di incredibili bellezze, mentre Pomponesco (MN), con la sua splendida piazza e l’aria da paese genuino, è invece l’immagine perfetta del borgo padano, tanto da essere stato scelto più volte come set da famosi registi. Cesare Zavattini e Mario Soldati furono i primi a rimanere colpiti dalla teatralità di piazza XXIII Aprile; Bernardo Bertolucci ambientò qui molte scene del film Strategia del ragno e poi di Novecento. Nel 1977 Pomponesco ospitò buona parte del film per la televisione Ligabue, mentre nel 1983 arrivò in paese Mario Girotti (Terence Hill) per l’ultimo Don Camillo. Infine, in ordine di tempo, Tinto Brass scelse Pomponesco e la golena per ambientarvi Monella, nel 1998.
Passando dal profano al sacro, a San Benedetto Po (MN) s’impone il vasto complesso monastico benedettino, uno dei più importanti tra le centinaia dell’Europa medievale, fondato nel 1007 da Tedaldo di Canossa, nonno della contessa Matilde. Arricchito nei secoli da artisti di prim’ordine (una pletora di nomi tra cui primeggia quello di Giulio Romano), con l’abbazia di Pomposa (FE) s’impone come uno dei più importanti poli religiosi affacciati sul fiume.
Verso il delta
A Stellata, piccolo borgo addossato all’argine, si conserva ancora una rocca, contesa tra veneziani ed estensi durante le cinquecentesche guerre d’Italia. Superata la fortificazione si procede oltre Ferrara, verso il delta. Ro (FE) è una tappa obbligata per gli amanti della letteratura: qui infatti si è immersi nelle atmosfere di Riccardo Bacchelli e del suo Mulino del Po. Storie di fatiche e lavoro che si ritrovano anche a Ca’ Tiepolo (RO) dove l’uomo ha lottato per strappare ogni palmo di terra all’acqua. La mole dell’impianto idrovoro di Ca’ Vendramin, con la sua ciminiera che svetta per 60 metri, oggi è sede del Museo della bonifica. All’inizio del Novecento le sue caldaie a vapore azionavano quattro pompe per il sollevamento dell’acqua, con una resa di 11.000 litri al secondo; questo rendeva l’impianto uno dei più potenti ed evoluti d’Europa. L’idrovora restò in funzione fino alla fine degli anni Sessanta, quando il fenomeno della subsidenza (cioè del progressivo abbassarsi del suolo) rese l’impianto inadeguato.
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