Per la famiglia contadina la cura degli animali dalle malattie era una seria fonte di preoccupazione, quasi si trattasse di uno dei membri della famiglia stessa. Cure e curiosità legate alla tradizione contadina.
Di Gian Vittorio Avondo
Gli animali, soprattutto bovini ed equini, rappresentavano una fonte di reddito irrinunciabile, in quanto ogni famiglia traeva dal loro allevamento i prodotti necessari per sopravvivere: il latte per i formaggi e il burro, le uova, la lana per gli indumenti invernali e, ma solo in circostanze eccezionali, la carne. Questo spiega perché in molti comuni e in molte frazioni della montagna piemontese esistessero particolari accordi (le cosiddette convenzioni) stipulati in maniera autonoma dai proprietari di bestiame, che li obbligava ad acquistare una quantità di carne proporzionale al numero di capi posseduti, in caso di incidente mortale occorso a un bovino (non era insolito che questi animali precipitassero in un dirupo durante il pascolo). Ciò ovviamente per risarcire, almeno in parte, un danno che per chi aveva perso l’animale sarebbe potuto risultare irreparabile.
Bovini ed equini innanzitutto
In tutte le famiglie contadine esistevano in genere almeno una mucca e un bue (o un cavallo), utilizzati per il reperimento di risorse alimentari e per il lavoro nei campi, cui si affiancavano pecore e capre (soprattutto in montagna), maiali le cui carni conservate fornivano l’apporto proteico durante la brutta stagione, e animali da cortile. Com’è ovvio, le bestie più tutelate, per le quali valeva la pena di spendere i soldi per il veterinario, erano bovini ed equini, che erano minacciati da diverse patologie più o meno gravi. Tra tutte, risultavano di gran lunga le più pericolose l’afta epizootica, la tubercolosi, la mastite, l’atonia del rumine, il malrossino, la morva e le intossicazioni alimentari, spesso determinate dall’ingestione di piante velenose o dall’eccessiva ingestione di cibo.
Rudimentali medicine
Anche per questi inconvenienti non era insolito ricorrere a rimedi fitoterapici o comunque empirici. Per la morva, un’affezione batterica che colpiva gli equini, si ricorreva a decotti di genziana, malva o verbasco che andavano somministrati all’animale per inalazione. Allo stesso modo, raccontano ancora oggi gli anziani, si curavano le mastiti che colpivano le mammelle delle bovine con impacchi prima freddi, poi caldi, di malva e serpillo. Alterativa a queste due piante era la conosciutissima arnica che trovava anche larghissimo impiego nella cura di malattie umane. Per le affezioni all’apparato genitale dei bovini trovava larghissimo impiego l’assenzio. Si preparava un decotto con le foglie e i fiori di questa pianta, che poi veniva somministrato all’animale mediante un clistere. L’operazione andava ripetuta più volte e, a quanto pare, infallibilmente produceva un effetto benefico nella bestia. C’erano poi particolari deformazioni che non potevano essere curate, e che facevano sì che si dovesse fornire assistenza all’animale; lo stesso momento del parto della vacca richiedeva la presenza assidua del contadino.
Un aiuto a procreare
Proprio perché il bestiame, e in particolar modo i bovini, rivestiva grande importanza per la famiglia, si poneva molta attenzione affinché tutti gli anni gli animali si potessero riprodurre. Per far ciò era necessario organizzare l’incontro fra la bestia da fecondare e il toro, che non tutti possedevano. Essendo un animale improduttivo, il toro era reperibile solo presso pochi allevatori che, non potendone sfruttare altre doti, ne sfruttavano le capacità riproduttive. Per poter far fecondare una bovina, dunque, bisognava rassegnarsi a pagare un compenso, talora anche salato, al proprietario del toro. Compiuto l’accoppiamento era abitudine diffusa sfregare i fianchi e il dorso della femmina con un grosso bastone, perché si credeva che ciò potesse essere di buon auspicio. In molte valli alpine, per esempio in val Varaita, c’era l’abitudine di mettere un po’ di neve nelle orecchie dell’animale. Anche a quest’operazione veniva attribuito un significato rituale, ed era credenza diffusa che fosse fondamentale per favorire l’incontro tra l’ovulo e lo spermatozoo nell’utero dell’animale. Sempre in alta val Varaita pare che al momento del parto fosse abitudine diffusa nutrire le bovine con le cosiddette routiés, ovvero fette di pane fritte nell’olio e imbevute nel vino. Ciò doveva servire a preservare la bestia dalle convulsioni, assai pericolose per il vitello nascituro.
L’erba stella, è quasi magia
Quanto fossero efficaci questi rimedi non è dato sapere. Di certo, l’importanza che l’animale rivestiva nell’economia familiare era tale che si era più disposti a spendere soldi per un consulto veterinario che per un consulto medico. Un’ultima notazione va fatta per un’erba particolare che trovava svariati impieghi nella cura di affezioni umane e animali: la cosiddetta erba stella, che in alcune aree alpine o di pianura del Piemonte era conosciuta con i nomi dialettali èrbo carantino, èrba del fidich o erba dla sinchen-a. Questa piccola pianta con la foglia stellata, utilizzata in decotto per la cura dei dolori epatici, era ritenuta capace di far ritrovare ai pastori gli animali dispersi nella nebbia.
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