Ebraismo italiano e storia della Penisola: storie di un legame continuo e ininterrotto, che risale a un lontano passato. Una breve ricostruzione.
Di Claudio Vercelli.
L’ ebraismo italiano, o per meglio dire nella penisola italiana, si può far risalire a Roma. Gli ebrei già vi risiedevano nel II secolo ante l’era volgare (ossia prima della nascita di Gesù). Diffuso era all’epoca il proselitismo, con le conversioni al monoteismo giudaico. Altri vi arrivarono trecento anni dopo, con la conquista romana della Giudea. La diaspora ebraica, ossia la presenza di comunità nelle aree costiere del Mediterraneo e nel moderno Medio Oriente è peraltro antecedente alla nascita del cristianesimo. Assumerà poi proporzioni e dimensioni assai maggiori dopo la distruzione del secondo tempio di Gerusalemme, nell’anno 70 dell’era volgare, a opera del generale e poi imperatore romano Tito. In quella circostanza, una grande parte degli ebrei sconfitti dalle truppe romane fu deportata a Roma. Il Sud d’Italia, e in particolare Napoli, Capua, Venosa e Siracusa, era residenza per non pochi ebrei, così come lo erano Ostia, Ravenna, Ferrara, Bologna e Milano. Robuste erano le colonie pugliesi (per esempio Bari e Otranto) e calabre.
L’orizzonte mediterraneo
La Sicilia, sotto le diverse dominazioni, fino a quella spagnola, fu sede d’importanti comunità ebraiche. Verso la fine del Quattrocento, su una popolazione peninsulare tra gli 8 e i 10 milioni di abitanti, gli ebrei erano 70.000, quasi tutti suddivisi in 52 località urbane. Una rilevante parte, 30.000, risiedeva in Sicilia. Con l’arrivo degli spagnoli gli ebrei furono cacciati dalle regioni meridionali, essendo assoggettati all’editto di espulsione decretato dall’Inquisizione spagnola. La popolazione ebraica si spostò quindi verso il Nord d’Italia. Più in generale, nei secoli che accompagnano il Medio Evo e poi l’età moderna, la storia dell’ebraismo italiano è fortemente intrecciata non solo alle altalenanti politiche papali (a volte tolleranti, in altri casi nettamente restrittive), ma anche ai più ampi flussi migratori che hanno caratterizzato la storia del Mediterraneo.
Eppure sembra un uomo
Quando costretti a una condizione di segregazione, le comunità ebraiche, quasi sempre organizzate in veri e propri organismi di autogoverno, erano apprezzate sia per le professioni svolte dai loro membri, dediti ai commerci e all’artigianato (essendo spesso interdetti da altre attività lavorative), sia per l’elevato tasso di alfabetizzazione. L’antigiudaismo cristiano poneva peraltro rigidi vincoli nella vita quotidiana degli ebrei e nei loro rapporti con i non ebrei. L’idea che i primi fossero «creature del diavolo», o comunque prive delle qualità che si attribuivano a un cristiano, concorreva ad alimentare gli stereotipi relativi a una loro presunta «disumanità». Quasi a voler dire che l’«ebreo» sembra un essere umano, ma lo è solo in apparenza. Ragion per cui, da lui bisogna sempre tutelarsi, guardandolo con grande diffidenza. Il diffondersi e il consolidarsi (così come l’estinguersi) di comunità ebraiche nelle aree urbane della Penisola fu pertanto sempre condizionato dalle prassi di tolleranza (la «protezione» offerta dai sovrani) o da quelle discriminatorie e persecutorie (gli «editti» e le «bolle papali»).
L’ebraismo italiano e l’Illuminismo
Decisivi furono prima lo sviluppo dell’illuminismo in Europa e poi, con la fine del Settecento, l’avvio dei processi rivoluzionari borghesi. L’uno e gli altri, infatti, introdussero e consolidarono la nozione di «cittadino», ovvero di individuo legato a un rapporto di fedeltà nei confronti dello Stato di appartenenza, a prescindere dalla sua identità culturale, religiosa, sociale. Si trattava dell’adozione del principio di eguaglianza formale. Le discriminazioni legali, infatti, vennero progressivamente a decadere. Per gli ebrei il processo d’integrazione giuridica e poi sociale e culturale fu conosciuto come «emancipazione», l’insieme delle misure che cancellavano o attenuavano i limiti che in precedenza ne avevano decretato l’esclusione dalla vita sociale collettiva. Nonostante spinte e controspinte, il processo emancipatorio, ovvero di parificazione giuridica, andò consolidandosi nella Penisola per tutta la prima metà dell’Ottocento, anche se l’opposizione dello Stato pontificio pesò moltissimo nel condizionarne il lento sviluppo, come le ricadute nelle vecchie forme di segregazione. In generale ciò che veniva maturando, nel campo dell’ebraismo italiano, oltre alla sempre più accentuata identificazione con quei sovrani liberali, a partire da quello sabaudo, che concesse nel 1848 la piena parificazione (con la formula «la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all’ammissibilità alle cariche civili e militari»), era la crescente consapevolezza che il proprio destino di minoranza in via di liberazione fosse fortemente legato all’impegno politico e, quindi, all’identificazione con la società circostante. Nello stesso regno di Sardegna, peraltro, una legge del 1857 definiva la condizione e la natura delle comunità ebraiche, allora qualificate come «università israelitiche», identificandole come organismi privati riconosciuti dall’autorità pubblica, all’interno delle quali gli ebrei che vi erano iscritti provvedevano alle necessità relative al culto, all’istruzione religiosa, all’assistenza rivolta ai correligionari, con la facoltà di esigere una tassazione a carico dei singoli membri e delle famiglie.
Il Risorgimento
Nella penisola italiana, con il processo di unificazione avviatosi nel 1859, i benefici della legislazione piemontese furono un po’ alla volta estesi a tutti quei territori che venivano a fare parte del nuovo Stato. Le interdizioni legali persistettero quindi solo nelle terre del declinante Stato pontificio, dove ancora nel 1870 a Roma esisteva il «ghetto», un quartiere ebraico a sé stante, separato dagli altri, in condizioni di fatiscenza e insalubrità, nel quale i suoi abitanti erano costretti a vivere loro malgrado. L’impegno ebraico nei processi risorgimentali, che interessarono la Penisola per almeno quarant’anni, dal 1820 in poi, fu assai accentuato, soprattutto tra i giovani. Non era solo un’adesione idealista, ma la concreta cognizione che l’emancipazione delle minoranze fosse strettamente legata alla maturazione dei diritti per tutti, alla conquista dell’indipendenza italiana e alla definitiva introduzione di un sistema di libertà e garanzie costituzionali. Negli anni risorgimentali gli ebrei italiani più impegnati s’identificarono quindi nelle posizioni democratiche, in quelle mazziniane e garibaldine così come in quelle liberali moderate. Nel primo Parlamento unitario, nel 1861, tre deputati erano ebrei.
Con il nuovo secolo, l’affermarsi delle spinte nazionaliste anche nella Penisola, che di lì a non molto sarebbe stata coinvolta nella Grande Guerra, iniziò tuttavia a turbare quelli che sembravano invece essere equilibri garantiti una volta per sempre.
Peraltro, il processo di unificazione nazionale comportò anche una ridistribuzione della presenza ebraica, poiché non poche famiglie si spostarono verso le città di più grandi dimensioni (e in particolare Milano, Firenze, Trieste, Torino, Genova, Bologna, Napoli), dove maggiori erano le possibilità di lavoro, a scapito delle comunità più piccole. Nel 1870, con l’acquisizione di Roma al regno d’Italia, il percorso dell’emancipazione ebraica nel nostro Paese poteva ritenersi concluso. Benché i pregiudizi cristiani e alcune forme di ostilità popolare non si fossero del tutto placate, l’Italia sembrava avere ultimato il processo di parificazione civile e giuridica dei propri cittadini non cattolici. Gli ebrei italiani, nel mentre, in meno di un secolo erano passati dall’essere 34.000 a 43.000. L’ebraismo italiano si connotava come incarnato da una minoranza fortemente urbanizzata, inserita sempre più spesso nelle professioni «liberali» (benché in proporzione fosse elevato il numero di commercianti e poi di assicuratori), con un notevole presidio intellettuale, derivante sia dall’alto tasso di alfabetizzazione sia dall’abitudine allo studio.
Irrompe il Novecento
Le tensioni culturali interne all’ebraismo italiano raccoglievano peraltro gli stimoli e le suggestioni del tempo. Da un lato la buona partecipazione alla vita politica, con la propensione per i partiti progressisti, dall’altro lato la disposizione di alcuni a seguire la via dell’assimilazione, ossia della perdita progressiva dell’identità originaria, cosa che avveniva soprattutto con i matrimoni misti, erano fattori che incidevano nel definire la qualità della presenza ebraica nel tessuto sociale e culturale italiano. Ma contava anche molto l’attenzione per la tradizione, non solo religiosa, che ora non era più vissuta come uno sforzo di mera autopreservazione rispetto a un mondo ostile, dovendosi semmai confrontare con lo spirito della modernità. Con il nuovo secolo, l’affermarsi delle spinte nazionaliste anche nella Penisola, che di lì a non molto sarebbe stata coinvolta nella Grande Guerra, iniziò tuttavia a turbare quelli che sembravano invece essere equilibri garantiti una volta per sempre. L’antisemitismo, infatti, conobbe un ritorno di fiamma. Non era più l’antico e inossidabile pregiudizio di radice religiosa, ma una vera e propria ideologia della modernità che identificava negli ebrei la ragione di molti dei problemi contemporanei.
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