In un concorso pubblico bandito il 29 settembre 1796 dall’Amministrazione generale con il titolo Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia?, forse caldeggiato da Bonaparte in persona, si confrontarono le posizioni di giacobini, illuministi e patrioti, che svolgeranno poi un ruolo di primo piano nelle vicende dei governi italiani. Un laboratorio politico per una nazione fino ad allora solo immaginata.
Di Filippo Ambrosini & Redazione Chirone
L’Italia, la sua libertà e la lotta per cacciare i tiranni erano l’obiettivo prefisso dal bando di concorso: «il primo nostro dovere nelle fortunate circostanze in cui ci troviamo, si è dunque quello di aprire agli ingegni italiani una vasta carriera, in cui trattando i grandi interessi dell’intera nazione rendino familiari al popolo gli eterni principi della Libertà e dell’Uguaglianza». L’espressione «nazione italiana» superava i particolarismi regionali e costituiva uno scarto importante rispetto al passato.
Le 57 dissertazioni, parte a stampa e parte manoscritte (di cui 31 sono rimaste e sono state studiate e pubblicate dallo storico Armando Saitta) arrivarono da ogni parte d’Italia ed esprimevano una profonda cultura e una padronanza dei classici, grande razionalità e lucidità di giudizio. Per la prima volta nella storia quasi tutti gli autori svilupparono il concetto di un governo italiano libero e democratico. Si può quindi identificare in tale documento una tappa fondamentale, la prima, del riscatto nazionale.
E il vincitore è…
Dopo alcuni mutamenti nella sua composizione, la giuria fu presieduta da Pietro Verri e il giorno 8 messidoro anno V della Repubblica francese (26 giugno 1797) attribuì il premio, consistente in una medaglia d’oro di duecento zecchini, alla dissertazione numero 39, con il titolo Omnia ad unum, di Melchiorre Gioia, in quel momento rinchiuso nelle galere del duca di Parma, che uscirà sette mesi dopo, il 5 gennaio 1798, e riscuoterà il premio.
Gioia si distingueva per equilibrio e moderazione, ma affermava anche con forza che essendo l’Italia «fortemente accessibile quasi da tutte le parti ai nemici esteri, conviene darle quel governo che può opporre la massima resistenza all’invasione; ora questo è assolutamente la repubblica una e indivisibile». E quindi una repubblica unitaria. Quanto alla fiducia nella Francia Gioia riteneva che, abbattendo la monarchia, si era dichiarata amica dei popoli, interessata a conservare la libertà che aveva promesso agli italiani, per la sua stessa gloria e per il vantaggio di essere circondata da repubbliche amiche.
Il progetto inoltre considerava «nemici della libertà il clero, dopo i monarchi e la nobiltà»: una netta posizione anticlericale sposata da molti dei memorialisti, che difendevano la libertà di culto contro la Chiesa, identificata da questi autori imbevuti di Illuminismo, come uno dei maggiori responsabili della frammentazione politica e della diffusa ignoranza.
Francia
Analoga fiducia era espressa dal romano Giuseppe Lattanzi, che considerava il governo francese l’unico legittimo e utile all’Europa, grazie alla sua Costituzione, e amico il suo popolo, il primo che, dopo aver combattuto per la propria indipendenza, aveva continuato ancora a battersi per la libertà d’Italia. Anche Vincenzo Lancetti non manifestava alcun dubbio sulla promessa che, al momento di firmare i trattati di pace con i suoi nemici la Repubblica francese avrebbe creato in Europa un nuovo popolo degno della sua amicizia.
Ma affiorava pure una linea di opposizione alla Francia, sviluppata da premesse ideologiche, come quella di Carlo Botta, convinto che le conseguenze della Rivoluzione francese fossero dannose e controproducenti. Oppositore era anche il poeta Giovanni Fantoni, autore di un contributo anonimo al concorso (era firmato «un italiano»). Anch’egli, ma in modo diverso da Botta, dimostrava il suo scetticismo verso la Francia, che «non permetterà mai accanto a lei una Repubblica talmente potente che possa divenirne rivale». Tuttavia, pur di scacciare dall’Italia la casa d’Austria, Fantoni accettava di fondarvi una repubblica nemica degli Asburgo.
Un’articolata analisi storica della situazione italiana era fatta dall’esule napoletano Matteo Galdi, cospiratore con Filippo Buonarroti e ritornato al seguito dell’armata napoleonica come battagliero giornalista, fondatore (con il cognato) del giornale Il termometro politico della Lombardia. Galdi concludeva la sua dissertazione sostenendo che «i popoli non si conquistano e quelli che hanno eretto l’albero della libertà non devono essere abbandonati alla vendetta dei tiranni o scambiati per l’interesse della Francia, ma si deve costruire una libera e indipendente Repubblica lombarda alleata della Francia, sotto la sua protezione e infine si faccia la Repubblica in Italia». Sulle sue stesse posizioni erano diversi suoi compagni meridionali e il romagnolo Giuseppe Compagnoni, animatore della Repubblica Cispadana, colui che aveva proposto l’adozione del vessillo tricolore come bandiera nazionale.
Peculiarità italiane
La Costituzione da adottare, e in particolare quella in vigore in Francia, costituiva il maggior problema. Sebbene le norme lì contenute rappresentassero una rivoluzione per gli ex sudditi degli stati della Penisola (un vero rovesciamento di mondo!) Carlo Botta non la riteneva utile per lo scopo prefissato. Per fare le leggi, sosteneva, è necessario rispettare «il genio, la natura, le inclinazioni, le consuetudini, gli piaceri, i capricci» differenti nelle varie nazioni. Di contro Giovanni Ristori, il maggiore giornalista italiano negli anni di passaggio tra l’illuminismo riformatore e il giacobinismo rivoluzionario, delineava i principi e le istituzioni della migliore Costituzione per gli italiani, riconoscendo di aver ripreso proprio quelli della carta francese perché non vi è «altra costituzione atta a conservare costantemente a un popolo libero i suoi diritti»; riconosceva anche che, secondo ragione, bisogna porre dei limiti al diritto di voto. Il suo timore era che la democrazia potesse trasformarsi in oligarchia o in tirannia. Il carattere degli italiani era anche la preoccupazione che stava alla base della proposta costituzionale molto articolata di Vincenzo Lancetti, che si ispirava al regime costituzionale inglese. Eustachio Delfini proponeva invece il modello federale svizzero.
Sulle caratteristiche del futuro stato unificato, democratico e indipendente, parte dei contributi sostenevano che dovesse essere unitario, altri sostenevano l’obiettivo più limitato di una federazione di stati, più realistica e adeguata alle profonde differenze esistenti nelle varie regioni. Ciò era auspicato anche come difesa delle autonomie regionali, soprattutto nell’ambiente moderato. Giuseppe Fantuzzi sosteneva che un’Italia «costruita sulla base della libertà ed uguaglianza, formerà una Repubblica unica, sola ed indivisibile. Affine poi che venga saviamente governata, verrà distinta in dieci uguali Senati». Le leggi fondamentali, civili, criminali, di polizia; pesi e misure, monete ecc. saranno invece uguali per tutto la Repubblica.
Unitari e federalisti
L’abate vercellese Giovanni Antonio Ranza affermava di desiderare ardentemente, al pari di ogni altro italiano, unità di governo repubblicano, ma «siccome l’Italia è divisa da molti secoli in domini, e costumi, e dialetti, ed interessi diversi; non è ora possibile di darle una forma di governo unica. Adunque adotteremo l’unità del governo federativo degli Stati Uniti d’America e dei cantoni svizzeri, ad onta dello spauracchio degli imbecilli chiamato federalismo; organizzandolo in undici repubbliche federate» adunate in una Convenzione nazionale, ma ognuna con la propria Costituzione, Gli undici stati immaginati da Ranza si contrapporrebbero, nella sua visione, all’unità della Francia «che è già uno e indiviso da molti secoli».
Sull’altro versante stava invece la convinzione che solo la nascita di una repubblica unitaria che comprendesse anche le regioni centrali e meridionali avrebbe potuto garantire la sopravvivenza e la concreta possibilità di difesa militare, con o senza i francesi. Tra i fuoriusciti napoletani, Matteo Galdi enumerava i mali che poteva produrre il federalismo in Italia, esasperando le divisioni e le dispute tra i diversi stati che ne avrebbero aumentato le debolezze, aprendo la strada al dispotismo. Ancora più drastica l’opinione del Ristori, che vedeva nella confederazione di tante piccole repubbliche prefigurarsi l’avanzata di un «demone della discordia», o quella del Lancetti, secondo cui unità e indivisibilità dovevano formare il fondamento principale del governo: una posizione comunque abbracciata da metà dei partecipanti.
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