Nel 1945, con la fine del conflitto, in Italia si conobbe una coda di violenza politica, una resa dei conti tra fascisti e antifascisti che da decenni è oggetto di studio: facciamone il punto.
Di Claudio Vercelli
Nel 1945, la conclusione di un conflitto vissuto in Italia in modo dilacerante, dai connotati fortemente ideologici, si prestava a una lunga scia di recriminazioni, come anche di violenze a seguire. In realtà furono più le prime che non le seconde a lasciare il segno. I numeri parlano al riguardo. Secondo i dati del governo (disponibili all’aprile 1946), nella sola lotta di Liberazione, tra i primi giorni di settembre 1943 e il 1° maggio 1945, erano morti 128.505 combattenti, mentre i feriti ammontavano a 29.398. I partigiani caduti risultavano essere 46.747, di cui 20.288 uccisi per rappresaglia o per ragioni politiche, quindi non legate ai combattimenti. Per il ministero degli Interni (dati del medesimo anno) le vittime della «resa dei conti», successiva alla conclusione dei combattimenti, furono complessivamente 9348 (8197 morti e 1167 scomparsi), la grande maggioranza dei quali nelle regioni settentrionali.
Il mito dei 300.000
Di ben altro tenore si è rivelata la memorialistica saloina, schieratasi su unità di grandezza completamente diverse. Giorgio Pisanò, per la sola Emilia-Romagna, fornendo un censimento nominativo, individua 3976 vittime, per poi spingersi alla misura complessiva di 35.000 morti. Altri autori dell’underground neofascista si azzarderanno nell’ipotesi record di circa 300.000 assassinati. Così in un opuscoletto di area, per il quale valgono tuttavia le parole di replica pronunciate da Mario Scelba:
In merito ai «trecentomila» assassinati al Nord, devo dire che si tratta di una delle menzogne più spudorate della propaganda del Movimento sociale. Secondo un’inchiesta fatta dal governo sulle persone scomparse dopo la liberazione, e che si potevano presumere uccise per motivi politici, il loro numero è risultato accertato in 1732. E posso dire che non sono forse neppure 1732, perché in quell’elenco sono comprese persone non soppresse, ma squagliatesi per timore di incorrere in rappresaglie.
La cifra dei 300.000 cominciò a comparire sulla carta stampata con l’inizio del 1946. Benché più volte smentita dalle autorità, assunse in alcuni ambienti quella forza che è propria di certe leggende metropolitane, capaci di alimentarsi e reiterarsi da sé. La pubblicistica neofascista l’ha fatta propria in due opere di rilievo, quella di Edmondo Cione, Storia della Repubblica sociale italiana, e il Contromemoriale di Bruno Spampanato. Più verosimilmente, studiosi e ricercatori di area antifascista – che mai hanno negato il fenomeno in sé – si sono attestati intorno alle 15.000-20.000 vittime. Tra il minimalismo di Scelba e le iperboli di alcuni reduci della Repubblica Sociale Italiana esiste quindi una misura intermedia, una proporzione di grandezza, sulla quale ragionevolmente si sono andati riconoscendo gli uni e gli altri. Con tuttavia significativi scarti all’insù o verso il basso.
Il problema delle fonti
Alle cifre inflazionate che venivano proposte non seguivano riscontri documentali, di per sé comunque non sempre facili da ottenere, poiché di certe morti non vi era traccia alcuna, se non nella memoria di chi a esse aveva assistito. Il mancato rinvenimento dei corpi poteva essere in concreto qualificato solo in quanto effetto di una scomparsa (non necessariamente un’uccisione, bensì una fuga), rendendo molto problematico il computo degli assassinati. A certe cifre, piuttosto che a «cifre certe», si perveniva quindi per induzione: il riscontro che in determinati luoghi vi fossero stati dei giustiziati, rapportato all’estensione dei territori considerati, portava a una proiezione statistica, per elevato grado di approssimazione, basata sulla pura ipoteticità. Quel che da ciò conseguiva, ovvero una data misura di grandezza, veniva poi offerto dalla pubblicistica d’area come fatto assodato e definitivo. La fantasia e la vocazione polemica colmavano il divario tra immaginazione e realtà. Una nota curiosa, a latere della querelle, è il fatto, più volte riscontrato, che i martirologi repubblichini non sempre distinguono tra caduti della propria parte e quelli partigiani, elencando insieme gli uni e gli altri e attribuendosi, computandoli ai propri, i numeri altrui.
I numeri ufficiali
Sommando agli assassinati, di cui vi era la certezza della morte, anche gli scomparsi, un Appunto del ministero dell’Interno del 4 novembre 1946 calcola in 8153 le vittime alla data dell’ottobre del medesimo anno, seguendo una scala decrescente che va dal numero massimo attribuito a Torino (1138) alla misura minimale di Ravenna (170). Questo per il Nord d’Italia. Estendendo l’area geografica e comprendendo nel computo tutto il Paese, nel biennio 1945- 1946 si arriverebbe a un totale di 9384 persone «politicamente compromesse» uccise o rapite e – presumibilmente – subito dopo assassinate. I valori assoluti sono funzionali per capire l’intensità degli eventi secondo un criterio di ripartizione geografica: in cima alla scala si colloca il Piemonte (2523), seguono poi l’Emilia- Romagna (1958), la Lombardia (1481), la Liguria (1360), il Veneto (907), il Friuli- Venezia Giulia (472 con l’esclusione di Trieste), la Toscana (308), il Lazio (136), la Valle d’Aosta (107), le Marche (84), l’Umbria (17), l’Abruzzo (16), il Trentino-Alto Adige (6), la Campania (5), la Basilicata (3) e, infine, il Molise (1).
La prima inferenza possibile è quella con la presenza partigiana, la cui distribuzione quantitativa avrebbe potuto costituire l’elemento dirimente nella scelta di passare per le armi, o comunque eliminare in vari modi, i repubblichini. La decrescenza, infatti, corre di pari passo alla distribuzione di aderenti alle formazioni resistenziali. L’addensamento al Nord, e in particolare nel Piemonte, segnala senz’altro, confortandolo, tale aspetto. Che tuttavia non è il solo da prendere in considerazione. Affinché le misure, pur nel loro contrastarsi sulla base delle diverse fonti che le originano, non paiano fini a se stesse, bisogna poi rapportarle a una dimensione più ampia, di cornice, che è quella offerta dal quadro di riferimento della seconda guerra mondiale e, nello specifico, delle tragedie consumatesi nella nostra Penisola. Il numero di vittime è stimato, per tutti i teatri del conflitto, intorno ai 50-55 milioni. In questo contesto l’Italia offrì un tributo relativamente «modesto», se si intende ragionare solo secondo parametri quantitativi e statistici. Per il periodo che va dal settembre 1943 agli inizi di maggio 1945, i morti in campo partigiano e tra i civili nei territori occupati dai tedeschi sono stati poco meno di 55.000 (44.720 caduti in combattimento e 9980 assassinati per rappresaglia, ai quali si aggiungono 21.168 resistenti e 412 civili mutilati o resi invalidi per molteplici cause). A questo computo vanno aggiunti i circa 300.000 decessi, tra militari e civili, che costituiscono le perdite effettive per tutta la durata del conflitto, tra il 1940 e il 1945. Se si paragona questo bilancio, pur nella sua tragicità, con quello di paesi come l’Unione Sovietica (dai 22 ai 25 milioni di morti), la Polonia (6 milioni, circa il 22 per cento dell’intera popolazione, con la quasi totale eliminazione della componente ebraica), la medesima Germania (5 milioni), che nello stesso tempo dovevano confrontarsi con catastrofi di dimensioni ben maggiori, si avrà il senso della scala delle proporzioni. Ma non è questo il solo punto sul quale soffermarsi.
La «brezza» del Nord
Per i fascisti sconfitti, il cedimento non era solo militare, ma anche e soprattutto ideologico. Il rischio che l’esperimento totalitario di cui erano gli accaniti sostenitori si sfaldasse definitivamente, non avendo più alcuna futura occasione di rilancio, era dietro l’angolo. Presentare l’immediato dopoguerra come un sistematico lavacro di sangue a danno degli sconfitti indifesi serviva a costruire una modalità di autorappresentazione destinata a essere molto diffusa nell’ambiente dei neofascisti: quella di vittime sistematiche di una violenza poi occultata, esercitata dai vincitori ai danni dei vinti, questi ultimi tali solo perché sconfitti dalla preponderanza delle armi altrui e non per responsabilità politica propria. Se di vera resa dei conti si poteva parlare, questa, invece, doveva essere di natura politica ed eventualmente giudiziaria. Le misure coercitive assunte al riguardo dai tribunali furono oltremodo contenute. I processi per collaborazionismo coinvolsero 43.000 italiani. Più della metà furono amnistiati in fase istruttoria e altri 14.000 rilasciati. I condannati in via definitiva sommavano a 5928. I successivi provvedimenti di clemenza permisero a 2231 fascisti, spesso riconosciuti responsabili di crimini di sangue, di uscire dalle carceri. Altri 3363 godettero di riduzioni di pena, spesso considerevoli. Alla fine del 1952 i fascisti in galera non superavano i 266. Ai militi della RSI non fu concesso lo status di prigionieri di guerra, in quanto il governo italiano non aveva riconosciuto la legittimità della Repubblica di Salò. Le condanne a morte furono 469, della quali 91 effettivamente eseguite. Il «vento del Nord», l’espressione coniata dal socialista Pietro Nenni nell’autunno del 1944 per definire la spinta politica prodotta dalla Resistenza, che avrebbe dovuto spazzare via non solo il fascismo, ma anche tutte le «forze antidemocratiche, tutti gli interessi reazionari», essendo «una forza in irresistibile movimento, che non si accontenterà di parole sulla libertà e la democrazia, ma vorrà fondare la libertà su nuove istituzioni politiche e su nuovi ordinamenti economici», si sarebbe rivelato ben presto qualcosa di molto più tenue di quanto non pensassero i resistenti.
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