In quale modo la propaganda del regime fascista preparò culturalmente la guerra d’Etiopia? Quali furono i filtri culturali attraverso cui l’aggressione venne giustificata, digerita e rielaborata agli occhi dell’opinione pubblica italiana?
Di Gianni Oliva.
L’elemento più noto della propaganda imperiale fascista è probabilmente la canzone Faccetta nera, scritta nell’aprile 1935 da Renato Micheli e musicata da Mario Ruccione. Composta nel momento in cui la stampa prepara la campagna di conquista denunciando la presunta sopravvivenza di un sistema schiavistico in Etiopia, la canzone celebra la grandezza civilizzatrice «romana» che porta libertà là dove esistono ancora le catene: «faccetta nera / bell’abissina » recita il ritornello, «aspetta e spera che già l’ora si avvicina; / quando saremo insieme a te, / noi ti daremo un’altra legge e un altro Re». Una delle prime esibizioni pubbliche del pezzo avviene a Roma nel cinema-teatro delle Quattro Fontane, presentata dalla compagnia dell’attrice-cantante Anna Foguez: sulla scena compare una ragazza di colore incatenata, poi arriva la Foguez nelle vesti tricolori dell’Italia che la libera e le fa indossare una camicia nera. Inserita in molte riviste di varietà dell’epoca, la canzone diventa subito popolarissima, specie sulla bocca delle truppe in partenza per l’Africa.
Liberate gli schiavi
D’altra parte, il tema della liberazione degli schiavi è centrale nella comunicazione dell’impresa: uno dei primi provvedimenti, datato 14 ottobre 1935 e rivolto alle popolazioni del Tigrè, è il «Bando di soppressione della schiavitù in Tigré», firmato da Emilio De Bono, in cui si afferma che «là dove sventola la bandiera d’Italia vi è libertà» e si proclama che «gli schiavi attualmente presenti nel Tigrè sono da questo momento liberi». Ampiamente veicolato dalla stampa nazionale, il bando di De Bono viene ribadito mano a mano che la conquista procede e quando Badoglio sta per entrare in Addis Abeba tutti i quotidiani pubblicano a piena pagina l’annuncio: «Oggi, giorno di Pasqua, tutti gli schiavi etiopi sono stati liberati».
Vecchi pregiudizi
La proclamazione della libertà non significa ovviamente equiparazione: la rappresentazione del «nero» discende da un rozzo darwinismo sociale che presuppone la superiorità del «bianco». Attingendo a stereotipi razzisti preesistenti, il fascismo descrive l’indigeno come un fanciullo ingenuo e selvatico, spesso coperto solo da un gonnellino di bucce di banana, con gli occhi sgranati di stupore, abitante di un’Africa misteriosa, lontana e primitiva. Il bianco, rappresentato come un adulto in divisa militare, talvolta con la fiaccola della civiltà in pugno, ha il compito di educare il fanciullo nero e di avviarlo sulla strada dell’emancipazione, nella consapevolezza di una superiorità europea intellettuale e morale, sostanziata da millenni di storia. Anche quando i bianchi e i neri vengono proposti in azioni comuni, il sistema valoriale di riferimento è diverso. Sul frontespizio de Il Balilla del 16 gennaio 1936, ad esempio, viene illustrato un episodio della guerra in cui un ufficiale italiano guida un gruppo di ascari eritrei all’attacco: l’azione eroica è la stessa, ma l’ufficiale bianco risulta «valoroso», mentre gli ascari neri vengono presentati come «indigeni fedeli». La stessa impostazione razzista (e sessista) si ritrova nella rappresentazione delle donne: le abissine sono spesso semivestite e con i seni nudi, così rappresentate non per aderire ai costumi locali ma per veicolare l’immagine delle «prede», rispetto alle quali l’uomo bianco può permettersi qualsiasi licenza.
La differenza di civiltà è ribadita nella proposta delle infrastrutture realizzate dal fascismo: mentre i neri sono alle prese con aratri di legno che non riescono a incidere il terreno brullo, i vincitori bianchi costruiscono ponti arditi, aprono strade in mezzo alle zone più impervie, realizzano edifici in stile razionalista nelle città. Da un lato i tucul di paglia e i piedi scalzi, dall’altra i camion carichi e gli stivali lucidi: la miseria e la forza, camuffate dietro l’ipocrisia del diverso grado di evoluzione civile.
Una terra promessa
Un’ulteriore caratteristica della propaganda coloniale è il riferimento allo «spazio vitale»: l’Etiopia è descritta come una terra fertile, la cui agricoltura aspetta soltanto l’arrivo dei contadini italiani per esprimere le proprie potenzialità. Le immagini raccontano un altopiano improbabile, dove la capacità lavorativa italica scaverà pozzi e canali, utilizzerà i più moderni ritrovati della tecnologia, realizzerà aziende modello nelle quali gli emigranti del Mezzogiorno ritroveranno la madrepatria. In questo senso, la conquista fascista si ricollega alle esperienze dell’antica Roma, quando i legionari non hanno soltanto occupato territori, ma li hanno «romanizzati» sul piano economico e culturale. Non a caso nel 1937, per celebrare l’impero, viene realizzato il film Scipione l’Africano di Carmine Gallone, che vince la Coppa Mussolini come miglior film italiano alla 5a Mostra del Cinema di Venezia e che propone la vittoria di Zama come l’inizio del dominio «civilizzatore» di Roma.
Nuovi media
Presi singolarmente, i temi della propaganda fascista non sono originali e si limitano a riproporre vecchi stereotipi già usati nell’Italia liberale di fine Ottocento. Ciò che vi è di nuovo è la capillarità dei messaggi: cinematografia, radiofonia, giornalismo, fotografia, fumettistica e varietà vengono sintonizzati su una stessa lunghezza d’onda e coinvolgono il Paese nell’esaltazione dell’impresa. I gerarchi e i podestà nelle piazze, i maestri e i professori nelle scuole, spesso i sacerdoti nelle chiese parlano dell’Etiopia come della più grande guerra coloniale di ogni tempo e dell’impero come della maggior sfida della civiltà. In questo senso, il 1935-36 costituisce il momento più «totalitario» dell’intero Ventennio, e assicura a Mussolini una popolarità senza precedenti.
Lascia un commento