Ovvero come nacque la disastrosa e improvvisata campagna in Grecia, rimasta nella memoria collettiva come emblema del disastroso intervento italiano nella seconda guerra mondiale.
di Gianni Oliva
Non solo Grecia. Se l’aggressione alla Francia nasce dall’ipotesi di un’imminente conclusione della guerra e dalla volontà di Mussolini di garantirsi una parte del bottino, il prosieguo delle operazioni è il risultato delle sorde gelosie tra gli alleati dell’Asse e dell’ambizione del Duce di ritagliarsi uno spazio di espansione autonomo. Il trionfo della Germania in Francia e il ruolo di Paese guida da essa assunto nel continente hanno infatti come conseguenza immediata l’accentuarsi della penetrazione tedesca nei Balcani, cioè in un’area dove l’Italia ha molti interessi e dove non a caso, un anno prima, il Regio Esercito ha occupato l’Albania.
Gelosie e rivalità ai vertici
In questo quadro di riferimento generale, diventa necessario un maggior dinamismo militare italiano, un’iniziativa che dia forza all’idea della «guerra parallela» e che legittimi le aspirazioni dell’imperialismo di Roma. In considerazione degli interessi nazionali nell’Adriatico e nel Mediterraneo, Mussolini pensa a una duplice strategia: un attacco nell’Africa settentrionale, partendo dalla Libia e puntando a est verso l’Egitto, e una penetrazione nei Balcani meridionali, verso la Grecia. La prima ipotesi è ben sintetizzata nelle istruzioni che nell’agosto 1940 il Duce invia al maresciallo Graziani, comandante delle forze italiane in Libia. Prevedendo una prossima invasione della Gran Bretagna da parte della Wehrmacht, Mussolini scrive: «Il giorno in cui il primo plotone di soldati germanici toccherà il suolo inglese, voi simultaneamente attaccherete. Non vi fisso limiti territoriali, non si tratta di puntare su Alessandria. Vi chiedo soltanto di attaccare le forze inglesi che avete di fronte appena vi sarà inviato l’ordine».
Socio di minoranza dell’Asse, l’Italia fascista cerca di sfruttare gli attacchi di Hitler per raggiungere in proprio risultati sul campo tali da garantirle qualche conquista territoriale. L’esperienza nei Balcani è ancora più illuminante: la decisione dell’attacco matura nell’ottobre, subito dopo che Hitler (senza avvertire l’alleato) ha invaso la Romania. La reazione attribuita a Mussolini («Questa volta Hitler saprà dai giornali che ho occupato la Grecia»») è indicativa di un’atmosfera piena di tensione, dove la rivalità interna all’Asse s’intreccia con le esigenze di tenere alto il livello di mobilitazione dell’opinione pubblica e con l’ambizione di non perdere visibilità internazionale di fronte ai successi folgoranti della Wehrmacht. Il risultato è un’offensiva improvvisata, sferrata il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, con un numero di divisioni dimezzato rispetto a quelle che gli stati maggiori ritenevano necessario: le difficoltà atmosferiche legate alla stagione delle piogge, la scarsità di strade, la mancanza di copertura aerea, le deficienze organizzative trasformano l’avanzata in una serie di sofferti combattimenti, dove sono sufficienti le forze del poco accreditato esercito ellenico a fermare e respingere indietro le unità italiane.
Il secondo fronte
Al di là degli errori strategici contingenti, le sconfitte sono implicite nella scelta di aprire un duplice fronte in Africa settentrionale e in Grecia: questo comporta infatti una pericolosa dispersione delle modeste risorse italiane, giustificabile solo nella prospettiva di una vittoria finale ormai prossima. Gli equilibri della guerra vanno però in un’altra direzione: rinunciato all’impossibile invasione della Gran Bretagna, Hitler sta ormai preparando l’attacco al fronte orientale e i tempi del conflitto si dilatano. Le campagne di guerra italiane diventano semplice avventurismo politicomilitare con conseguenze inevitabili. Tra novembre e dicembre 1940 l’aggressione alla Grecia fallisce in modo disastroso e il Regio Esercito viene ricacciato nelle basi di partenza dell’Albania: in Libia l’esercito di Graziani viene messo in rotta; tre corazzate (orgoglio della Regia Marina) vengono affondate nel porto di Taranto. Il sogno della vittoriosa «guerra parallela» muore ancor prima di nascere e l’Italia deve fare i conti con la propria impreparazione e con le velleità del proprio Duce. Per ingannare l’opinione pubblica e salvare il proprio prestigio, Mussolini liquida i capi militari più noti, riversando su di loro la responsabilità degli insuccessi, ma questa operazione (che colpisce in modo particolare il maresciallo Badoglio) non muta i rapporti di forza.
La guerra subalterna
I fatti dell’autunno 1940 dimostrano che l’Italia fascista non è in grado di conseguire una posizione di potenza autonoma nella scia della vittoria tedesca, che i suoi tentativi di acquistare pegni territoriali e successi militari falliscono, che il Regio Esercito non è neppure in grado di difendere le sue posizioni tradizionali senza aiuto germanico. La «guerra parallela» si trasforma così in «guerra subalterna», dove a stabilire strategie e ruoli sono i comandi tedeschi e dove le unità italiane possono solo subordinarsi alle scelte della Wehrmacht. Sul piano strettamente militare, Mussolini si giova della nuova situazione: nell’aprile 1941 tedeschi e italiani occupano il regno di Jugoslavia e la Grecia, mentre in Africa settentrionale entrano in Egitto e puntano verso Alessandria. Sul piano politico, questo significa però la fine dell’autonomia e la subalternità agli interessi di Berlino. Nei due anni successivi, e sino alla sconfitta di El Alamein, l’Italia non è più l’alleato dell’Asse, ma una potenza di second’ordine, priva di autonomia e di legittimazione, le cui forze armate sono impegnate in compiti logoranti di copertura e di presidio nel Mediterraneo e nei Balcani. Mentre le città del Nord vengono bombardate in modo massiccio dagli angloamericani e l’intero sistema nazionale di produzione e di scambio viene messo in crisi, il regime si aggrappa a dichiarazioni roboanti che nulla hanno più a che vedere con la realtà della guerra combattuta.
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