I carnevali alpini offrono una particolare stratificazione di maschere e riti, alcuni antichissimi. Cultura cristiana e riviviscenze pagane si mescolano nei giorni in cui l’ordine sociale viene rovesciato e le paure più profonde esorcizzate.
Di Gian Vittorio Avondo
Derivante dalle dionisiache greche (le antesterie) e dai saturnali romani (feste durante le quali erano aboliti gli ordini sociali legati alle gerarchie per far andare in scena l’esatto contrario), il carnevale assunse importanza nel Medioevo, quando divenne occasione per irridere il potere e, soprattutto, per trasgredire le abitudini alimentari, cibandosi di ciò che in altri momenti dell’anno era scarsamente disponibile. In particolare della carne, tant’è che il carnevale trae proprio la sua denominazione dalla locuzione latina carnem levare (ovvero togliere la carne), in riferimento al lungo digiuno imposto dalla quaresima, un momento di espiazione introdotto dalla Chiesa per temperare gli eccessi cui vissuti durante il periodo carnevalesco.
I carnevali alpini e le loro simbologie
I carnevali alpini, pur cogliendo l’essenza di questi principi, rappresentano però qualcosa di più rispetto a quelli cittadini. Se questi ultimi, infatti, volevano e vogliono soprattutto essere irrisione del potere, nei carnevali propri delle montagne vanno individuati elementi ulteriori. L’autorità irrisa nel corso di queste manifestazioni non è dunque genericamente la classe politica, ma la tradizionale autorità di paese o comunque le figure di riferimento cui i valligiani si dovevano rapportare: il parroco, il medico e il giudice, spesso chiamato a dirimere questioni di confini e di proprietà.
Accanto a questi, trovavano poi spazio figure destinate a turbare l’immaginario collettivo, a volte legate a particolari credenze, cui era affidato il ruolo fondamentale di rappresentare o il carnevale stesso o il responsabile della sua morte. Si tratta del lupo, l’orso o l’uomo selvatico: figure con cui diuturnamente si dovevano fare i conti.
La morte del carnevale e l’avvento della Quaresima altro non vogliono essere che l’auspicio legato al rinnovarsi delle stagioni, all’arrivo della primavera, alla ripesa del ciclo agrario e alla speranza di raccolti proficui. Basti pensare, a questo proposito, al formidabile significato simbolico dell’aratura della neve, nel carnevale di Champlas du Col (Torino).
I carnevali alpini, densi di simbologia, intrisi di cultura materiale e di metafore legate alla società e alla vita quotidiana, rappresentano una categoria antropologica di estremo interesse in quanto sintesi di ansie e speranze delle genti montane.
L’orso di segale di Valdieri
L’orso di segale, ovvero un figurante vestito con un goffo costume, con tanto di cappello, intessuto con la paglia di segale, evoca e incarna a Valdieri, piccolo centro nel cuore delle Alpi Marittime, i miti e le paure ancestrali delle genti della montagna: l’uomo selvaggio, i grandi mammiferi predatori. Vuole anche essere, tuttavia, un importante messaggio d’augurio, legato agli antichi culti di Sant’Orso, vescovo di Aosta dal nome fortemente evocativo. La ricorrenza di Sant’Orso, di cui il poco che si conosce è più leggenda che storia, è stato così denominato, è posta tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. È collocata nel periodo (il primo giorno di febbraio) in cui gli orsi cominciano a dare i primi segni di vita dopo il lungo sonno invernale. Innumerevoli i detti popolari legati a questa stagione («a Sant’Orso i ruscelli cominciano a scongelare») o quelli che invitano il contadino a non buttare le provviste per gli animali (paglia e fieno), perché l’inverno non è ancora terminato. In questo contesto l’orso è spauracchio e auspicio allo stesso tempo: queste sue due qualità sono sostanzialmente il messaggio che la manifestazione carnevalesca vuole lasciare.
Dopo anni di abbandono, decretato anche dal fascismo, che nel 1931 soppresse con decreto prefettizio la manifestazione, l’orso è tornato in anni recenti a danzare tra le case di Valdieri. Si tratta, come detto, di un personaggio avvolto da un goffo abito intessuto con paglia di segale, che calca un cappello costituito dello stesso materiale.
Il giorno di carnevale questa specie di «mostro», con la faccia annerita di caligine, viene esibito per le vie del paese incatenato dai domatori e seguito dalle fantine, ragazze vestite con costumi fantasiosi, dai perulìer o magnìn, gli stagnini. Alla fine l’orso fugge, mentre la giovane donna che per tutta la manifestazione ha danzato con lui, simbolo della Quaresima, rimane tra la gente.
Quando balla l’orso di Mompantero
L’orso che si mette in movimento la prima domenica di febbraio in occasione della festa di Santa Brigida e nelle vicinanze del giorno della «Candelora», momento fondamentale del ciclo agrario (quando si poteva presumere la durata futura dell’inverno), è quello che a Urbiano (frazione di Mompantero) anima l’importante manifestazione che i locali chiamano Fôra l’ours. In questa occasione si festeggia il grande plantigrado, un tempo comune nelle montagne piemontesi, che nei detti popolari comincia a muoversi e a scuotersi dal letargo nei giorni di tardo inverno, nei giorni cioè, in cui ricorre la festa di Sant’Orso, santo mitico cui venivano attribuite virtù particolari (come per esempio nella Chapelle de St. Ours a Ubayette, dove si praticava il rito del ritorno in vita per i bimbi morti prima del battesimo).
L’orso di Urbiano, come a Valdieri, se da un lato vuole rappresentare l’auspicio di una rapida morte per l’inverno e un saluto alla primavera incipiente, dall’altro vuole esorcizzare una tra le più significative paure delle genti della montagna: nell’occasione, infatti, l’orso si presenta ridotto all’impotenza, legato e governato da un domatore. Non bisogna abbassare l’attenzione, tuttavia, perché se si allenta la corda comincia l’orso inizia a dimenarsi e a emettere urla terribili.
La manifestazione, si scandisce in due momenti, uno religioso, il mattino quando dopo la messa vengono distribuiti i pani benedetti, e uno laico, quasi pagano, viste le sue probabili origini precristiane. Consiste nella sfilata dell’orso, interamente vestito di pelo e con un campanaccio, e dei quattro cacciatori suoi custodi, che al seguito di alcuni musicanti si mostrano per il paese, fermandosi ogni tanto per calmare la sete con robuste bevute di vino rosso. Il gioco consiste, almeno per la prima parte della manifestazione, nel cercare di trattenere l’orso che con urla belluine cerca di avventarsi sugli spettatori. In un secondo momento la banda inizia a intonare motivi più ballabili e l’orso, ammansito dalla musica, sceglie una tra le tante ragazze in costume e inizia a danzare con lei senza che i cacciatori cerchino di ostacolarlo. È la resa dell’uomo selvatico, vinto dalla bellezza e dalla dolcezza.
L’antico Carnevale di Champlas du Col
Morto nel 1947 e rinato episodicamente nel 2006, ad opera di alcune associazioni locali, il carnevale di Champlas du Col ha origini assai antiche ed è caratterizzato da brevi rappresentazioni (oggi si direbbe «Flash mob») inscenate da gruppi di giovani mascherati che percorrono il paese nei giorni della domenica e di martedì.
Un tempo si trattava di un rito assai complesso, che prendeva l’avvio il giorno successivo la festa di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio. Tra quella data e primo febbraio, in tempi diversi cominciavano a muoversi i figuranti. Il vecchio e la vecchia danzavano nella stalla più grande del paese, fingendo di mungere una capra, il Monsù e la Madama, vestiti in abiti cittadini, passavano a visitare le case del villaggio e infine nella notte tra il 31 gennaio e il primo febbraio, l’orso e il domatore visitavano le stalle per ricordare al contadino l’approssimarsi della primavera (e quindi l’uscita dell’orso dal letargo). Poi non restava che attendere la settimana di carnevale, quando tra giovedì e martedì grasso le maschere uscivano per la questua tra le frazioni di Sestriere, chiedendo cibo per la festa finale. Ciò che offrivano in cambio era l’annuncio della fine dell’inverno.
I personaggi rappresentati dai giovani mascherati sono predefiniti e del tutto tipici dei carnevali alpini. Per buona parte rappresentano simbolicamente gli stereotipi della società otto-novecentesca: due arlecchini, due carabinieri, due medici/avvocati, la cantiniera, il giudice, il narratore, due vecchi e una vecchia, la quaresima, il carnevale e la figlia di carnevale. Il momento più pregnante e simbolico dell’intera rappresentazione è sicuramente costituito dall’aratura della neve, praticata con un vecchio aratro. Questo evidentemente può essere considerato una sorta di eredità di un antico rito propiziatorio, utile a invocare buoni raccolti per l’anno che andava a cominciare e per stimolare il risveglio della terra dopo il «sonno» invernale.
Dopo il rito, la sceneggiata carnevalesca continua con la morte del vecchio, soccorso dal medico, e con il «processo al carnevale ed alla quaresima» nel quale alcuni personaggi del corteo mascherato vengono accusati di comportamento amorale. All’atto della condanna i personaggi vengono imprigionati, ma non gli arlecchini, che in virtù della loro scaltrezza riescono a sfuggire alla cattura. In base alla sentenza la quaresima viene considerata innocente e per questo motivo autorizzata a prendere il posto del carnevale.
Le Barbuire di Lajetto
Lajetto è un piccolo borgo del Comune di Condove, in cui storicamente si teneva un importante carnevale alpino, certamente uno tra i più curiosi e studiati del Piemonte. Tenutosi per l’ultima volta nel 1950 il carnevale è stato riproposto in chiave più moderna e organizzata nel 2010, grazie alla tenacia di un’associazione culturale (l’Associazione Le Barbuire) che tutt’oggi si occupa della sua organizzazione.
L’evento si svolge in un’unica giornata, il pomeriggio della domenica di carnevale, ed è messo in scena da maschere (Barbuire) che si dividono in due gruppi: i belli ed i brutti. Del primo gruppo fan parte personaggi che si ritrovano in molti carnevali alpini: due Arlecchini, il Munssù e la Tòta elegantemente vestiti e raffiguranti altrettanti cittadini (addirittura il Munssù reca una valigia in mano, come fosse nell’atto di partire o di arrivare), il dottore e il soldato, ovvero altre due figure immancabili in questo genere di rappresentazioni.
Appartengono invece alla categoria dei brutti: le coppie di vecchie e vecchi (caratterizzate da maschere deformi e bitorzolute) e il cosiddetto Pajasso, ovvero una figura vestita con pelle di capra e maschera animalesca, che vorrebbe significare l’uomo selvatico, figura tipica della cultura e della mitologia alpina. Costui reca un lungo bastone cui è appeso per le zampe un gallo, oggi di plastica, ma un tempo vivo e vegeto. Ai brutti è anche demandato il compito di infastidire con scherzi (talora pesanti) i convenuti per assistere alla sfilata, che si svolge per le vie del paese, al seguito di alcuni suonatori di strumenti tradizionali. Qui e là, dove possibile, ci si ferma per ballare tra le case, ponendo sempre molta attenzione agli scherzi dei brutti, che sbucano dai nascondigli.
Passando tra le case, il corteo giunge lentamente al grande prato denominato del «Terahé», posto al fondo del paese. Qui, tra le danze degli arlecchini e del Munssù e della Tòta, il Pajasso stacca il gallo dal suo bastone, per appenderlo a testa in giù al ramo di un albero. Tra lazzi e danze, di tanto in tanto alcuni personaggi tentano di tagliare la testa al gallo, senza per altro riuscirci: sarà lo stesso Pajasso, che con un colpo netto, staccherà la testa all’animale, uccidendo simbolicamente il Carnevale e con esso l’inverno.
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