Eporedia venne fondata nel 100 a.C. sulla riva sinistra della Dora Baltea, all’imbocco della Valle d’Aosta, lungo la direttrice che conduceva nel territorio dei Celti Salassi e ai passi alpini. Di questo ci informano Velleio Patercolo (I, 15, 5) e Strabone (IV, 6-7). La città venne dedotta come colonia dopo aver consultato i Libri sibillini (Plin. Nat. Hist. III, 123) durante il sesto consolato di Gaio Mario e di Valerio Flacco (Velleio Patercolo, Historiae Romanae I, 15,5).
Di Sandro Caranzano
Eporedia, secondo Plinio, nell’idioma dei Galli indicava i bravi domatori di cavalli. Plinio parla di un oppidum, lasciando così intendere il carattere fortificato di un insediamento nato in risposta alla volontà di presidiare le zone ancora occupate dai Salassi (era di 43 anni prima l’impresa di Appio Claudio Pulcro) e rafforzare il controllo sui filoni auriferi di cui era ricca la regione.
L’originaria conformazione urbanistica della città romana ci è ancora poco nota. La prevalenza della critica è concorde nell’identificare nell’asse dell’attuale via Arduino e nel suo proseguimento, via Palestro, il decumano romano; questo fu tracciato da oriente a occidente e correva pressoché a metà pendenza del versante del colle che digrada in direzione della Dora Baltea. Sulla base di indizi sparsi, è stato possibile ricostruire alcuni isolati di abitazione rettangolari di 73×35 m, organizzati per terrazze artificiali e tagliati in direzione sud-nord da cardini in lieve pendenza.
La forma dell’antica Eporedia
Eporedia, al pari di Susa, si sviluppò su un territorio abbastanza limitato e vincolato dalla natura accidentata del luogo; è forse per questo che i cardines della città romana non sembrano disporsi in posizione ortogonale al decumano, ma formano angoli leggermente ottusi. Via Siccardi, con il suo andamento obliquo, potrebbe ricalcare il tracciato del cardo, che collegava il fiume e il porto fluviale con il foro. I più antichi resti archeologici scoperti in città sono di una generazione successiva alla fondazione della colonia: si tratta di un edificio a più vani con pilastrate portanti scoperto in piazza Balla (ca. 80 a.C.), in cui si deve riconoscere il deposito di un grande laboratorio artigianale o un magazzino commerciale; la vocazione utilitaria dell’isolato si mantenne nei secoli, maturando nel periodo dei Flavi, quando venne ristrutturato in forma di un horreum (magazzino per le merci).
In corso Botta, presso l’Hotel La Serra, tra il 1969 e il 1970, è venuto alla luce un intero isolato di abitazione edificato nella seconda metà del I sec a.C. , la cui comprensione è resa difficile dalla carenza di documentazione.
Il teatro
La scoperta del teatro di Ivrea avvenne invece quasi per caso, nel 1838 e nel 1839, effettuando lavori di risanamento del centro storico nel tratto compreso tra la piazza di Città e la piazza del Castello, dove si trova il duomo della città. Caso interessante di pionierismo archeologico, dopo la scoperta il teatro di Ivrea fu in gran parte demolito facendo uso di esplosivi per ricavare spazi edilizi, ma nel corso del XX secolo ne sono state riconosciute e disegnate alcune porzioni inglobate nelle cantine delle case.
Un po’ come a Pollenzo, l’andamento circolare del perimetro si è fissato nella curvatura delle facciate medievali di via Cattedrale e di via Peana. L’edificio di prima età imperiale era adagiato per due terzi sul declivio roccioso del promontorio naturale, ma nei punti altimetricamente depressi le gradinate erano sostenute dai tipici fornici in calcestruzzo romano disposti in maniera radiale. Il diametro della cavea può dunque stimarsi in 72 m e la lunghezza del pulpitum riservato agli attori in 40 m; di quest’ultimo fu possibile riconoscere i pozzetti in muratura che ospitavano i pali per l’apertura e la chiusura del sipario (auleum).
Fatto abbastanza peculiare, le gradinate superiori erano raggiungibili per mezzo di una scala ricavata nello spazio tra due pareti semicircolari che assecondavano l’andamento della facciata esterna. I muri, realizzati in calce e pietra con ricorsi di laterizio, rimandano all’età imperiale, ma la datazione precisa dell’edificio non è certa, anche se un’iscrizione sembra attestare un rifacimento in età adrianea (Corpus Inscriptionum latinorum V, 6798).
Se poi gli scavi archeologici confermeranno che al vertice del colle si trovava un tempietto, quest’ultimo si poteva affacciare sul teatro dalla sommità della cavea, dando luogo a un’associazione visuale teatro-tempio che appartiene alla storia più antica della civiltà romana: dal teatro di Pompeo in Campo Marzio (il primo teatro in muratura di Roma) a quello di Augusto sulla collina di Verona.
L’anfiteatro
Più fortunato è lo stato di conservazione dell’anfiteatro, ubicato come di consueto fuori dalle mura, circa 500 metri a oriente del centro storico lungo l’antica strada diretta a Vercellae. Fu costruito tra il 70 e l’80 d.C. sui resti di una villa suburbana dell’età di Augusto. Rimasto in uso per circa due secoli, l’edificio di spettacolo venne abbandonato nella tarda antichità, come molti altri; attorno all’anno 1000 era ancora riconoscibile, perché un documento riferisce di una aedes arene videbantur labore esse magnifico; in seguito venne progressivamente invaso dall’edera e dalle sterpaglie sino a che se ne persero le tracce.
L’edificio aveva l’asse maggiore di 96 m ed era dotato di una fossa carontea per le macchine sceniche: si trattava di una semplice aula rettangolare posta sotto l’arena, che veniva ricoperta con un tavolato di legno durante gli spettacoli ed era accessibile agli operatori tramite un cunicolo proveniente da un podio rettangolare posto alla base delle gradinate (il palco per le autorità: pulvinar).
Un altro corridoio anulare di servizio ad andamento ellittico correva come di consuetudine attorno all’arena. I muri sono in calcestruzzo con ricorsi di laterizi, ma l’anfiteatro non è sorretto da fornici: è semplicemente appoggiato a un terrapieno. La terra necessaria per realizzarlo venne ricavata dallo scavo dell’arena stessa, intenzionalmente ribassata rispetto al piano della campagna.
Il muro perimetrale dell’anfiteatro, sul lato sud, mostra una serie di archi in calcestruzzo disposti in orizzontale e con la concavità volta verso il muro di cinta; si tratta di una soluzione architettonica finalizzata a rinforzare staticamente la costruzione che ritroviamo in altri cantieri di età imperiale, per esempio nel teatro di Augusta Raurica (Svizzera), nell’anfiteatro di Imola e in quello di Aventicum (Svizzera).
Dall’anfiteatro di Ivrea provengono due rari rivestimenti in lamina di bronzo borchiati (baltei) che rivestivano il parapetto di una tribuna. Appartenevano alla collezione dei conti Perrone e sono oggi trasferite nel Museo Civico Garda (un’ultima lastra è stata scoperta ad Albiano) le lesene in marmo appartenute ad un edifi cio monumentale decorate con candelabri vegetali ed eroti, talora rappresentati a cavallo di un mostro marino o veleggianti su un delfi no nell’atto di sostenere scudi con gorgoni, elmi, cornucopie, strumenti musicali (una lira) e maschere teatrali. Si tratta di ciò che resta di un fregio di qualità eccezionale per l’ambiente provinciale, opera di uno scultore colto operante nel II secolo d.C. e di cui non conosciamo l’originaria collocazione in città, forse il tempio del foro.
Vuoi approfondire? Clicca qui.
Lascia un commento