La proclamazione di Firenze capitale fu uno shock per molti piemontesi, costretti ad abbandonare Torino per il capoluogo toscano. Eppure quello spostamento si rivelò il primo passo verso la creazione di un’identità nazionale, fino ad allora solamente immaginata nelle retoriche e nei discorsi politici.
Di Roberto Bamberga
Quando Vittorio Emanuele giunse a Firenze capitale d’Italia, alle dieci e mezza di sera del 3 febbraio 1865, trovò una città illuminata a festa, bandiere alle finestre e – soprattutto – una fiumana di persone. La moltitudine accompagnò il re dalla stazione a Palazzo Pitti, dove dovette affacciarsi dal balcone più volte, fin dopo mezzanotte. Vittorio non era però di buon umore: aveva abbandonato Torino dopo una lunga contestazione. A Capodanno la tradizionale festa di gala al Teatro Regio era stata un fiasco e il re si era dovuto confrontare sia con i lanci di pietre all’esterno del teatro sia con l’assenza per protesta dei cittadini più in vista. Stessa scena il 30 gennaio, per il ballo di carnevale, quando i sonori fischi della gente in piazza attraversarono le finestre di Palazzo Reale. La notizia del trasferimento della capitale, infatti, era stata accolta male a Torino, dove in settembre l’esercito aveva addirittura sparato sulla folla, in piazza San Carlo, per reprimere i primi moti. Il clima non era certo cambiato con il passare del tempo.

Vignetta di Adolfo Matarelli apparsa il 24 Settembre 1864 su Il Lampione. Alla notizia del trasferimento della capitale, Torino-Gianduia si sfoga con la torre di Palazzo Vecchio: «questo è un colpo mortale per me». Foto via Wikimedia Commons.
Morale Basso
Il re non fu il solo ad affrontare quel passo fatidico avvelenato dall’umore nero. Anche politici e diplomatici si trovarono con le valigie in mano, insieme al personale ministeriale e agli impiegati d’ufficio – i «poveri» travet che tanta parte ebbero nel teatro piemontese tra Otto e Novecento –, giornalisti, parlamentari e il loro mare di clientele. Una massa di uomini in marcia verso la Toscana, pronta a rovesciarsi su Firenze, dove l’umore forse era migliore, ma non di molto. Il temporaneo spostamento della capitale (Roma restava pur sempre l’obiettivo dichiarato fin dal 1861) non fu certo accolto da salti di gioia nella città di Dante, dove i problemi urbanistici, sociali e culturali impliciti nel trasferimento furono evidenziati fin dal momento della proclamazione. Il toscano Bettino Ricasoli, già presidente del consiglio e gonfaloniere fiorentino, paragonò la nomina di Firenze capitale a «una tazza di veleno che ci tocca sorbire».

I cantieri per il rinnovamento di Firenze sventrano anche il cuore della città. Comune di Firenze, Creative Commons BY- 3.0
Firenze
Che città era la Firenze che si apprestava a diventare capitale? Contava 118.000 abitanti, le strade e i palazzi ricordavano ancora la gloria dei secoli passati, quando «l’Atene d’Italia» aveva illuminato il resto d’Europa con le sue arti mentre ne dominava i mercati con i commerci. Memorie storiche che inorgoglivano gli abitanti, muovendo invece al riso i piemontesi, per cui era surreale preferire la salvaguardia di un antico pilone votivo all’allargamento o al drizzamento di una strada. I fiorentini, di contro, tenevano in poca considerazione questi forestieri, visti come burocrati sanguisughe dello Stato. La città, che impiegava una discreta parte dei suoi abitanti nelle industrie manufatturiere e agricole, conobbe ovviamente un boom edilizio, attirando nelle sue strade lavoratori provenienti dalle campagne e dal contado. Considerando i nuovi inurbati, l’allargamento della cinta daziaria della nuova Firenze e gli impiegati in arrivo da Torino, al termine del «quinquennio capitale» la città si ritrovò con un incremento del 58% della popolazione.
In tutte le sale dei caffè si fuma liberamente; e questa libertà che potrebbe scandalizzare un buon torinese è giustificata dall’assenza quasi assoluta delle donne. Se ne veggono alcune la mattina a far colezione; la sera mai. (La nuova capitale – guida pratica popolare di Firenze)

L’inaugurazione del Monumento a Vittorio Emanuele II, prima del termine dei lavori di Piazza della Repubblica il 20 settembre 1890.
Rivoluzione urbanistica
Se per lo spostamento della capitale il parlamento stanziò 7 milioni di lire, i costi per i lavori di ammodernamento di Firenze capitale furono ben più onerosi, aggirandosi oltre i 90 milioni. I lavori più significativi furono la demolizione delle antiche mura per collegare le zone esterne al centro attraverso un reticolo di viali. Un’opera dall’alto valore simbolico (almeno quanto la scelta di far insediare parlamento e senato in Palazzo Vecchio) che si affiancò al nuovo tracciato per la cinta daziaria, agli interventi di arginamento dell’Arno, alla costruzione del nuovo gasometro, di un nuovo macello, del nuovo campo di Marte e del viale dei colli, destinato a diventare in breve una delle passeggiate più in del turismo internazionale. Inoltre, non si possono dimenticare espropri e sventramenti per la costruzione o la ricostruzione d’immobili e di nuovi alloggi. Un lavoro mastodontico, il cosiddetto «piano Poggi» (dal nome del suo autore, l’architetto Giuseppe Poggi), che trasformò Firenze da placida città di provincia a città moderna, in linea con le esigenze del tempo e pronta al confronto con altre città europee. Sorsero grand hotel per ospiti diplomatici e politici in visita alla capitale, mentre il gusto architettonico storicista diede una nuova dignità e uno status urbanistico degno del nuovo rango acquisito da Firenze.

Il viale dei colli, la passeggiata della capitale.
«Sentissi come na barca ‘nt in bòsch»
L’elezione di Firenze capitale portò dei vantaggi alla nazione. Molte nazioni europee interpretarono il trasloco da Torino in chiave positiva e riconobbero l’esistenza del nuovo Stato italiano (cosa che fino ad allora si erano astenute dal fare). Più difficile, per gli osservatori del tempo, riconoscere gli italiani. Come da previsione i piemontesi fecero fatica ad adattarsi alla nuova realtà. Si lamentavano dei danni subiti e dall’essere stati strappati alla loro terra, non si trovavano a loro agio a tavola e anche il vino, per quanto buono, non era quello di casa. Eppure, il contatto tra piemontesi, veneti, lombardi e toscani dovette velocizzare la nascita di un’italianità reale, di una comunità percepita nella diffusione e nella riproduzione del fiorentino, sempre più convintamente lingua nazionale. Qui i Bogia nen scoprirono che il «para pioggia» si chiamava «ombrello», che il «dolce clima» riservava in realtà inverni rigidi e che le scuole e gli uffici del regno, fuori dalla vecchia capitale, non dimostravano la stessa efficienza.
In seguito a quanto abbiamo detto fin qui, voi non durerete fatica a comprendere che a Firenze il portinaio è un mito. Non ne trovate che nei palazzi e negli alberghi; e se ne incontraste uno per caso, in qualche casa borghese, potete tenerlo in conto d’un animale esotico o transatlantico. (La nuova capitale – guida pratica popolare di Firenze)

Stampa raffigurante una veduta di piazza Santa Croce il 14 maggio 1865, durante l’inaugurazione del monumento a Dante Alighieri per il seicentenario dantesco, grande evento di lancio della Firenze capitale. Comune di Firenze Creative Commons BY- 3.0
La nuova capitale – guida pratica popolare di Firenze
Ad accompagnare quanti sbarcarono nella Firenze capitale in quei mesi ci pensò la Tipografia letteraria di Torino, che nel 1865 diede alle stampe il volumetto La nuova capitale – guida pratica popolare di Firenze. Si tratta di una pubblicazione agile, attenta sia agli aspetti quotidiani della vita fiorentina sia a preparare i nuovi inurbati alle abitudini locali. Scopriamo così, per esempio, che «un abitante dell’Italia Settentrionale – eccettuati, forse, i Veneziani – rimane colpito e quasi scandalizzato della tarda ora in cui si aprono le botteghe la mattina. Alle nove e mezza voi ne trovate ancora di chiuse. La domenica, poi, e le altre feste nessuna è aperta, tranne quelle in cui si vendono commestibili, i caffè, i liquoristi e le pasticcerie. Nè è a credersi che in compenso i bottegai veglino tardi la sera. Poco più, poco meno, essi abbandonano i loro negozii fra le otto e le nove. Fra le undici ore e la mezza notte, poi, si chiudono anche i caffè e le osterie; e la città, poco dopo s’immerge nel silenzio, che per altro non è sempre si profondo, o per dire più esattamente, non è spinto fino allo scrupolo come a Torino». Oppure che «siccome poi a Firenze i centesimi non ripugnano alla popolazione – come ripugnano a Torino – così se al fattorino del caffè quando vi rende il resto lasciate sul baciletto due o tre centesimi, state sicuro che se li piglia. Se poi vi lasciate un soldo, avete diritto ad esser preso per un milord». Tra le altre informazioni utili, inoltre, la guida aiutava i suoi lettori a evitare brutte figure. Per esempio, a Firenze le donne usavano passare il tempo alla finestra, per godere dell’aria fresca in assenza di cortili. Un’abitudine che persone provenienti da altre regioni d’Italia potevano facilmente fraintendere, con risultati sicuramente poco piacevoli.
2 Comments
Bello sarebbe stato lasciar Firenze capitale,
e non fare Roma un puttanaio totale.
Francesco, Roma non poteva non diventare la Capitale d’Italia: Roma è una città troppo importante x non esserlo.