La breccia di Porta Pia segnò la fine del potere temporale dei papi. Allo stesso tempo, certificò l’inizio di un lento processo di trasformazione dei luoghi e dei simboli di Roma capitale, dando il via alla resa dei conti tra il regno e la Chiesa.
di Roberto Bamberga
La Roma capitale nei suoi primi anni era una città di 200.000 abitanti, pochi in confronto alle altre metropoli europee. Già grande meta turistica internazionale, la nuova capitale del regno era caratterizzata da un’economia agricola e da poche industrie. Come già accaduto a Firenze, il trasferimento dei ministeri e del personale politico e amministrativo contrassegnò i primissimi anni di Roma capitale. Già nei giorni successivi all’ingresso del regio esercito, una commissione edilizia costituita appositamente richiese qualcosa come 40.180 stanze; il comune di Roma riuscì a consegnarne solo 500. La soluzione più immediata apparve quindi l’esproprio dei conventi, edifici di grandi dimensioni ideali per accogliere quel mare di carte e di funzionari. Fu così che il convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva diventò il ministero delle Finanze (poi della pubblica istruzione), il convento ai Santi Apostoli il ministero della Guerra e il convento degli agostiniani il ministero della Marina. E poi caserme, uffici e tribunali: l’occupazione di quei palazzi che per secoli avevano rappresentato la forza della religione e il prestigio degli ordini religiosi era anche un preciso atto simbolico.

Piazza Colonna, centro nevralgico della politica e della socialità altolocata della nuova capitale italiana, in una stampa ottocentesca.
La meccanica dello scontro
Ma non solo ministeri: fin dall’autunno del 1870 il regno d’Italia si diede da fare per aprire nuove scuole in città. Così i corsi della rinnovata università di Roma iniziarono nel novembre dello stesso anno, mentre nelle stanze del cinquecentesco Collegio Romano, già epicentro dell’educazione gesuita in città, trovò posto il nuovo liceo Visconti. Questo nuovo corso di studi si affiancò al vecchio, le scuole Pie, che insieme alla nobiltà nera e ai religiosi rappresentavano il fronte di resistenza all’urto dei «buzzurri», com’erano chiamati i norditaliani a Roma. Lo scontro tra laici e clericali rappresentò l’orizzonte culturale in cui si svolse la trasformazione di Roma capitale. Uno scontro ideologico, certamente, ma in alcuni casi anche fisico o diplomatico, come ben raccontano due avvenimenti di primo piano accaduti nella Roma capitale di metà Ottocento: la traslazione della salma di Pio IX e l’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno.
«Viva Pio IX»
Pio IX morì il 7 febbraio 1878, dopo aver indicato come luogo per la propria sepoltura la basilica di San Lorenzo. La sua salma, conservata per tre anni tra le mura di San Pietro, prese la strada del Verano solo la notte tra il 12 e il 13 luglio 1881. Il corpo dell’ultimo papa re fu issato su un carro funebre coperto da un drappo di velluto rosso e tirato da quattro cavalli. Il corteo, composto da chierici e «papalini», prese avvio da piazza San Pietro intonando salmi, illuminato da torce e bengala; altra luce arrivò dalle case del borgo, rispettosamente illuminate. Ma la figura di Pio IX non poteva suscitare solo ammirazione incondizionata: le sue scelte politiche ne avevano fatto l’ultimo ostacolo all’unificazione e liberali e patrioti lo avevano considerato un nemico fino all’ultimo giorno. Fu così che il corteo, a pochi passi dalla partenza, venne attaccato da una «contromanifestazione» laica, che impattò sui clericali scaldando gli animi. I patrioti cercarono di avventarsi sul carro funebre, per buttare nel fiume il «papa porco». Furono respinti con difficoltà dalla forza pubblica e dai «pretini». Sassaiole tra i due gruppi proseguirono durante tutta la marcia, tra le vie del centro di Roma capitale. Le file della polizia dovettero essere rimpolpate dall’esercito, uscito in fretta dalle caserme. Ci vollero tre ore per raggiungere San Lorenzo e il piazzale del Verano, a quel punto presidiato dalla truppa. Lì il corteo innalzò forte il grido «Viva Pio IX», mentre dall’altra parte s’intonò «l’inno di Garibaldi». La messa funebre poté cominciare solo alle quattro del mattino. Fuori si contavano circa una decina di persone tra contusi e feriti (pare che qualche clericale abbia usato la torcia a mo’ di mazza) mentre una ventina furono gli arrestati.

Statua di Pio IX conservata nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Fu commissionata a Francesco Confalonieri e sul basamento si trova la scritta «In riparazione agli oltraggi fatti alla salma di Pio IX nella notte del 13 luglio 1881». Foto di G.dallorto via Wikimedia Commons.
Giordano Bruno
Un altro schiaffo tirato al Vaticano fu la costruzione del monumento di Giordano Bruno a Campo dei Fiori. L’iniziativa partì nel 1876 negli ambienti universitari e, con il passare del tempo, fu sostenuta anche dalla massoneria e da (pochi) politici radicali. Giordano Bruno fu elevato nei loro discorsi a emblema del progresso e della ricerca scientifica, uno studioso costretto a combattere contro una Chiesa oscurantista e dogmatica che riuscì a ucciderlo, ma non a piegarne lo spirito («forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla»). Un perfetto eroe romantico per una generazione, come quella risorgimentale, cresciuta a pane e melodramma. L’idea di collocare il monumento proprio dove il filosofo nolano fu arso vivo, il 17 febbraio 1600, venne ad Armand Lévy, vecchio comunardo francese, ebreo e socialista: un curriculum perfetto per essere catalogato da ogni buon clericale come un personaggio fortemente irritante. La Chiesa, che considerava Bruno un eretico, si oppose e protestò, mentre in Comune si tentò di far arenare il progetto. Fu Francesco Crispi a sferrare il colpo decisivo, rimuovendo dalla carica di sindaco di Roma Leopoldo Torlonia (accusato di essere troppo vicino al Vaticano).
«Noi dentro l’arca della sicura fede […] staremo ad aspettare. E faremo la storia di questo diluvio subito dopo, quando, spossate le acque dal loro stesso rancore, s’abbasseranno lasciando il ricordo della loro altezza in una riga oscura sui muri».
Il 9 giugno 1889, in una piazza quasi completamente imbandierata (a parte qualche finestra chiusa in segno di contrarietà) avvenne l’inaugurazione di un monumento ormai diventato caso politico, emblema di una «nuova Italia». Il corteo ufficiale era composto da seimila persone di rappresentanza e millenovecento settanta bandiere, un gruppetto di reduci garibaldini («fra i quali se ne vedono alcuni assai vecchi» annotò il cronista della Stampa) e finestre imbandierate. Lo svelamento della statua del nolano, corredato da altri «martiri del libero pensiero» ricordati nei medaglioni incastonati nel suo basamento (tra gli altri Sarpi, Campanella e Huss), assunse i contorni di un grande raduno anticlericale. L’onorevole Bovio, noto massone chiamato tra gli oratori per l’inaugurazione, fece il punto sul significato del monumento nel clima teso della Roma postunitaria: «Il papato si duole meno del 20 settembre che del 9 giugno. La prima di queste date fu una conclusione, la seconda un principio. Per la breccia di Porta Pia l’Italia entrò in Roma come al termine del suo cammino; oggi Roma inaugura la religione del libero pensiero. Qui Giordano Bruno fu arso, ma qui noi non siamo a chiedere vendetta: domandiamo tolleranza per tutte le dottrine e tutti i culti». Verso le otto di sera, a bordo della sua carrozza, fece capolino lo stesso presidente del Consiglio Crispi, curioso di vedere l’ormai famosissimo monumento. Venne ovviamente accolto da un’ovazione.

Il monumento a Giordano Bruno, particolare. Foto via Wikimedia Commons.
Il monumento visto dall’altra parte del Tevere
La reazione vaticana fu fredda, e non poteva essere altrimenti per i «prigionieri politici» della nuova Roma capitale. L’Osservatore romano scrisse quello stesso giorno annunciando ai propri lettori un silenzio per la durata di tre giorni: «Stamane è cominciato per noi un periodo di lutto e di raccoglimento, nel quale il silenzio esprimerà il dolore meglio che non lo farebbe qualsiasi lamento […] per tre giorni lasciamo libero corso al deplorevole episodio. Noi dentro l’arca della sicura fede […] staremo ad aspettare. E faremo la storia di questo diluvio subito dopo, quando, spossate le acque dal loro stesso rancore, s’abbasseranno lasciando il ricordo della loro altezza in una riga oscura sui muri». Il papa, Leone XIII, passò l’intera giornata in ginocchio, fisso in preghiera davanti alla statua di san Pietro, in rigoroso digiuno. Dalla sua voce uscirono solo parole di condanna per le celebrazioni al monumento di «un uomo malvagio e perduto». L’affaire del monumento a Giordano Bruno contribuì a ingrossare la «questione romana». Ancora nel 1929, durante le trattative con lo stato fascista che condussero alla riconciliazione siglata con i Patti Lateranensi, la Chiesa tentò di richiedere l’abbattimento del monumento, ma inutilmente.
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