Animali per modo di dire, ovvero quanto del nostro sapere popolare è stato trasmesso ed è sopravvissuto attraverso i modi di dire legati al mondo animale?
Di Nicola Di Mauro
«Animali, per modo di dire» è un gioco di parole che esplicita in modo veloce un ragionamento più complesso: esistono frasi di senso compiuto ed espressioni che si legano al mondo animale e che affondano direttamente nel nostro passato. Esattamente come per i proverbi, questa saggezza popolare è arrivata fino a noi perdendo però i contesti, le cornici di senso da cui traevano origine. Vediamo qualche esempio.
L’asino
Questo quadrupede mammifero della famiglia degli equidi ha dato origine a una lunga e articolata storia, dai risvolti e contorni più vari. Ecco qui di seguito un approssimativo elenco di locuzioni in uso nella nostra lingua: «Asino!», «Che asino!», «Fare come l’asino di Buridano», «Legare l’asino dove vuole il padrone», «Mancano i cavalli e trottano gli asini», «Non fare l’asino!», «Non essere un asino!», «Pezzo d’asino», Qui casca l’asino!», «Meglio un asino vivo che un dottore morto», «Orecchie d’asino», «Pezzo d’asino!», «Che somaro!», «Come un somaro!», «Somarone!». Nel romanzo di Natalia Ginzburg Lessico famigliare, è riportato: «‘Asino’ voleva dire, nel linguaggio di mio padre, non un ignorante, ma uno che faceva villanie o sgarbi». Un’altra espressione, «Fare la barba all’asino», è usata nel senso di fare una cosa inutile. In molte culture, paesi, civiltà, tradizioni ed epoche storiche diverse tale animale da soma e da trasporto ha fatto scaturire una percezione di sé con caratteristiche a volte positive, a volte poco accattivanti. Una dualità di giudizio che si manifestava da una civiltà all’altra, da un periodo storico precedente a quello successivo. Dalla Grecia all’Egitto, dalla Mesopotamia all’Anatolia, dalla Roma antica all’India, nel mondo
ebraico e in quello cristiano, la sua ricezione culturale assunse connotazioni che si richiamavano alla testardaggine, alla stoltezza, alla lussuria, ma anche allo spirito di sacrificio, a un’indole paziente e saggia, addirittura regale o divina, alla sua resistenza e alla fatica nel sopportare il peso del carico o del trasporto, alla sottomissione e asservimento. Il raffronto con il cavallo, altro animale da soma, di aspetto più nobile – così lo definiva Omero – rispetto a quello del quadrupede con le orecchie lunghe, come con il mulo, s’inserisce di frequente nel modo di esprimersi quando si vuole intendere la disposizione o costrizione a portare pesi o fare lavori pesanti. Nel mondo ebraico, infatti, l’asino è considerato con un’accezione molto positiva. Però, i modi di dire dove questo animale compare (anche nell’accezione somaro) in riferimento al comportamento di qualcuno, esortano in termini poco carini a non assumere un comportamento da ebete, da perfetto ignorante o molesto; invitano a vigilare di fronte a situazioni poco chiare, in cui si percepisce un’insidia, una trappola, una sorta d’inganno, insomma, a fare attenzione.
Inoltre, è preferibile essere presi per sciocchi e ignoranti e restare indisposti, non tanto bene in salute, e vivere così come tali, piuttosto che finire male o morire sia pure da dottori che curano le malattie, o da persone colte, istruite e con tanto di titolo di dottore in qualche disciplina o scienza. Insomma, essere definiti «asini» o in qualche modo essere identificati come tali non è proprio un elogio. Il significato dell’espressione «Qui casca l’asino!» è quello di trovarsi di fronte a un ostacolo o un problema con l’intento di venirne a capo. Sul piano etimologico, si pensa sia originato dalla formula della Scolastica e delle discipline intellettuali dell’epoca antica e medievale, in virtù della quale con l’espressione latina pons asinorum («ponte degli asini») s’intendeva una questione teorica difficile da risolvere, un punto critico da superare, su cui filosofi, intellettuali e tecnici si arrovellavano per sbrogliare la matassa, sciogliere l’enigma, trovare una soluzione. Il fatto che l’asino abbia le orecchie molto lunghe comporta poi la tendenza a canzonare chi ha i padiglioni auricolari molto grandi. Nel mondo della scuola, gli scolari o gli studenti biasimati per la scarsa volontà e la negligenza nell’apprendimento sono comunemente paragonati a questo quadrupede da soma (anche con il diminutivo o il peggiorativo: «asinello», «somarone»). La celebre favola di Pinocchio rende molto bene l’idea che si aveva riguardo ai ragazzi poco volenterosi e non disposti all’impegno nello studio. «Fare come l’asino di Buridano» deriva poi da una teoria di Jean Buridan (XIV secolo), filosofo francese e rettore dell’Università di Parigi, il quale suppose che un asino, di fronte a due secchi, uno di acqua e uno di avena, posti alla stessa distanza dall’animale, rimanesse fermo e incerto sul da farsi, ossia se prima bere o mangiare, per finire morto di stenti. Di qui avrebbe avuto origine il detto popolare per indicare l’esitazione o la perplessità di qualcuno di fronte a due possibilità. A questo apologo filosofico si dedicarono anche Spinoza, Leibniz e Voltaire; anche Achille Campanile ci scrisse sopra un vivace raccontino.
Balena
Il paragone con questo cetaceo è di consueto adottato con riferimento spesso e volentieri alla corpulenza e alle dimensioni sin troppo grandi o enormi di una persona in evidente sovrappeso. La formula augurale «In culo alla balena», usata per auspicare la buona riuscita di qualcosa, fa riferimento esplicito al cetaceo per via di un brano della Bibbia (Vecchio Testamento, libro di Giona, ma con un richiamo anche nei Vangeli), quando il profeta rimase accucciato nel ventre di una balena, o comunque di un grosso pesce, per tre giorni, scampando così a una tempesta. Il restare prigioniero all’interno di un rosso pesce ritorna anche come episodio fiabesco in Pinocchio.
Bufala
Con questa voce si designa una notizia sbagliata, un’informazione falsa o artefatta, non tanto frutto di un errore interpretativo o incidentale, quanto conseguente a una volontà mistificatoria di trarre in inganno per qualche fine. Il significato prenderebbe origine dal dialetto romanesco, nel senso più generale di «fregatura» o «imbroglio», dal momento che poteva capitare che esercenti di trattorie della capitale offrissero ai clienti carne di bufala spacciandola per carne di vitello, più pregiata e costosa. D’altro canto, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, secondo alcuni studiosi, la parola era usata nel mondo del cinema per indicare film di scarsa qualità. Secondo il Vocabolario degli Accademici della Crusca, l’origine etimologica si rifà all’espressione «Menare per il naso come una bufala», nel senso di portare dove si vuole l’interlocutore con discorsi menzogneri, trascinandolo come si fa con i buoi o i bufali, condotti con l’anello al naso. Altri studi filologici spiegano invece che il termine deriverebbe ancora dal dialetto romanesco per indicare una persona stolta e grossolana, paragonandola al quadrupede ruminante. Il vocabolo, inoltre, potrebbe avere avuto origine anche dalla «Bufalata», una festa che si celebrava a Siena o a Firenze in cui si svolgevano gare di corsa tra bufale. Infine, il termine potrebbe anche derivare etimologicamente dalla locuzione «Pescare a bufala», cioè secondo una tecnica di pesca o con un tipo di rete che non sempre davano i risultati sperati. Altre ipotesi filologiche escluderebbero, però, la derivazione dall’animale in questione, chiamando in causa, per spiegarne l’origine del termine, il vocabolo buffa, ossia «folata, buffo, o soffio di vento» (dato che si usava dire buffare nel senso di soffiare).
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