Camillo Olivetti, basta il nome. A distanza di decenni dalla morte, la sua figura (congiuntamente a quella di suo figlio Adriano Olivetti) continua a rappresentare un modello innovativo di impresa e di società, un riferimento per decenni (e non solo in Italia) di intellettuali, sociologi, economisti, politologi.
Di Gianni Oliva.
Camillo Olivetti discende da parte di padre (Salvador Benedetto Olivetti) da una famiglia della comunità israelitica di Ivrea, con numerose tenute sparse nel Canavese, grandi capacità commerciali, investimenti immobiliari a Torino e Milano, intuizioni in campo agrario (è Salvador Benedetto a introdurre in Piemonte l’uso delle zolfo contro la peronospera, all’epoca insidiosa malattia delle viti); da parte di madre, Elvira Sacerdoti, da una ricca famiglia del Modenese, piena di interessi culturali e politici, aperta alle suggestioni dei tempi nuovi.
Rimasto presto orfano di padre, Camillo (battezzato con questo nome in onore del conte Cavour) segue gli studi superiori classici al convitto Calchi Taeggi di Milano, per poi iscriversi all’Università di Torino, dove frequenta il biennio di scienze matematiche e fisiche: ottenuta la licenza, passa al Regio Museo Industriale Italiano (in seguito diventato Politecnico), laureandosi nel 1891 in ingegneria industriale. Le sue condizioni economiche gli permetterebbero una vita senza preoccupazioni, dedicata all’amministrazione delle tenute e delle case, ma il temperamento e le ambizioni lo spingono verso altre prospettive.
La formazione
Per imparare in maniera adeguata la lingua e conoscere il mondo industriale inglese, terminati gli studi egli si reca a Londra, dove s’impiega come semplice operaio in un’azienda per comprenderne dall’interno i meccanismi: ne ritorna dopo un anno, padrone della lingua e affascinato dalle nuove tecnologie applicate alla produzione. A consolidare la vocazione all’imprenditoria è il Congresso Internazionale di Elettricità, che si svolge nel 1893 negli Stati Uniti, nell’ambito dell’Esposizione Universale di Chicago.

Il delegati del Congresso Internazionale di Elettricità di Chicago, nell’ambito dell’Esposizione Universale di Chicago del 1893. Il primo a sinistra è il piemontese Galileo Ferraris.
Per rappresentare l’Italia il governo sceglie Galileo Ferraris, lo scienziato piemontese che ha raggiunto fama mondiale scoprendo il principio del campo magnetico rotante: e questi chiede a Camillo Olivetti, che è stato tra i suoi allievi più brillanti e conosce la lingua, di accompagnarlo. L’esperienza americana è fondamentale nella formazione del giovane: incontra Edison nella sua residenza di Llewellyn Park, nel New Jersey, e ascolta la musica da uno dei primi fonografi; trascorre un’intera giornata a Newark con il direttore della fabbrica di lampade Edison, informandosi su laboratori, stabilimenti, organizzazione del lavoro; sempre a Newark visita le officine Weston e altri insediamenti industriali minori. Grazie ai contatti stabiliti durante il congresso, ottiene l’iscrizione a un corso di fisica dell’università di Stanford, in California, e un anno dopo, conseguito l’attestato di specializzazione, diventa assistente di ingegneria elettrica.
L’idea
Rispetto alle esperienze fatte in Inghilterra, negli Stati Uniti Olivetti trova un sistema produttivo ancora più articolato e un livello sociale e culturale più avanzato. Nel 1895, carico di conoscenze e di stimoli, rientra a Ivrea, ormai maturo per iniziare la vita da imprenditore. Il panorama economico che si presenta all’epoca nel Canavese è modesto: non ci sono officine di una certa importanza, non banche, non società finanziarie. Il distretto vive di agricoltura e di qualche iniziativa nel settore tessile. Mancano del tutto scuole professionali per preparare maestranze. Ma il legame con il territorio d’origine è forte e Camillo decide di stabilire comunque a Ivrea la sua attività: se l’industria è il motore della crescita e le praterie sconfinate degli Stati Uniti sono diventate la prima area produttiva del mondo, anche l’Eporediese, con i suoi campi e le sue colline, può diventare un distretto industriale moderno.

La «fabbrica in mattoni rossi», il primo stabilimento di Camillo Olivetti a Ivrea.
Dopo alcuni tentativi nel settore commerciale, legati alla rivendita di bicilette americane Victor e di macchine da scrivere Williams, Camillo nel 1896 decide di aprire un’officina per la fabbricazione di strumenti di misurazione elettrica e la installa alla periferia della cittadina, in un edificio di mattoni rossi di via Castellamonte, una strada all’epoca quasi deserta, circondata da prati e campi. Poiché mancano le professionalità necessarie, nella sua villa di Monte Navale organizza egli stesso un corso elementare di elettricità per operai, nella convinzione che non esista la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.
Fuori dagli schemi
L’impegno didattico di Camillo non nasce solo da necessità: egli è convinto che il più importante momento preparatorio di un’industria sia la formazione del personale. Nella sua alta concezione artigiana dell’officina, egli predilige gli operai che negli studi non sono forse andati oltre le elementari, ma che sanno dare un contributo fondamentale di volontà e d’intelligenza. Non a caso, alcuni di coloro che vengono formati nei primi anni di attività della «C. Olivetti&C.» resteranno sempre al suo fianco, assumendo via via funzioni di alta responsabilità: è il caso di Domenico Burzio, seconda elementare, il più giovane tra gli allievi delle lezioni tenute a Monte Navale, il collaboratore più fedele che diventerà il primo direttore tecnico della fabbrica; o di Giovanni Rey, che sarà capo delle macchine automatiche; o, ancora, di Giuseppe Trompetto, futuro capo del montaggio.
Agli occhi di molti popolani eporediesi, l’atteggiamento di Camillo Olivetti appare eccentrico: gira in bicicletta quando i giovani del suo censo usano il calesse o i primi modelli di autovetture, insegna elettrotecnica a operai che non hanno istruzione anziché rinchiudersi nei circoli della buona società, veste in modo inusuale, a mezza strada tra il pittoresco e il trasandato, quando i notabili del tempo hanno doppio petto, bombetta e orologio da taschino. Tutti coloro che lo conoscono ne riconoscono l’ingegno e l’intraprendenza, ma pensano che il suo talento si sposi ad altrettanta bizzarria. In realtà, Camillo Olivetti è semplicemente un imprenditore al di fuori degli schemi convenzionali dell’Italia umbertina e la sua diversità è tanto più avvertita in una realtà di provincia come il Canavese. Nel suo modo di comportarsi c’è invece una profonda coerenza con le proprie convinzioni ideali.
Il socialismo
L’attenzione alla formazione dei dipendenti, la familiarità con cui si rapporta a loro (Domenico Burzio sarà per lui prima di tutto un amico), il coinvolgimento diretto delle maestranze nel definire il modello di lavoro, il rispetto per le attività manuali nascono dalle attitudini politiche di Olivetti. Egli si professa socialista e nel maggio 1898 è a Milano, tra la folla manifestante che viene presa a fucilate dal generale Bava Beccaris; nel 1899 si candida a Torino (residenza che alterna a quella di Ivrea) e viene eletto consigliere comunale insieme a capi storici del socialismo come Claudio Treves e Oddino Morgari; collabora con numerosi articoli a Il grido del popolo, il settimanale dei socialisti torinesi.

L’Olivetti M1.
Il suo socialismo è lontano dalle diatribe ideologiche tra riformisti e rivoluzionari e dai tatticismi congressuali e guarda invece agli aspetti umani e solidaristici: «Cuore e mente! Ecco i due impulsi ad ogni nostra azione, che nell’odierna società borghese si trovano in perenne contrasto tra loro!», scrive nel 1895 nel numero speciale di Il grido del popolo, pubblicato in occasione del 1° maggio. In questo senso, egli è figlio della cultura positivista del secondo Ottocento e della convinzione che progresso della scienza e progresso della civiltà coincidano.
Essere imprenditore significa per lui contribuire in modo sostanziale al processo e non vede contraddizione tra il ruolo dell’industriale e la prospettiva di un mondo più equo e giusto. Il limite della classe dirigente nazionale è non aver compreso i nessi tra impresa, lavoro e benessere, aver privilegiato la retorica umanistica anziché il pragmatismo sociale. In una conferenza tenuta a Novara molti anni dopo, nel 1927, dirà:
L’istruzione della nostra borghesia ha un fondamento prettamente preindustriale. Noi siamo ancora i figli dei Latini che lasciarono ai servi e ai liberti i lavori industriali e che in ben poco conto li tennero, tanto che ci tramandarono i nomi dei più mediocri proconsoli o poetucoli ed istrioni che dilettarono la decadenza romana, ma non ci ricordarono neppure i nomi di quei sommi ingegneri che costruirono le strade, gli acquedotti e i grandi monumenti dell’Impero.
Fare impresa significa per Olivetti migliorare le condizioni di vita generali della società, cioè attuare una forma di socialismo pratico, storico e graduale.
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