Sant’Andrea di Vercelli quest’anno compie 800 anni. Un grande traguardo che festeggiamo con un’intervista di due puntate a Simone Caldano, assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Firenze, con cui scoprire tutto quello che c’è da sapere sulla prima chiesa gotica italiana.
Di Roberto Bamberga.
Sant’Andrea di Vercelli compie 800 anni. La prima domanda è: oggi la vediamo esattamente come la poteva vedere un pellegrino del Duecento oppure la struttura originaria e gli arredi sono irrimediabilmente mutati?
Allora, la chiesa è sostanzialmente intatta, non così il chiostro e le altre pertinenze anche se in buona parte restano comunque ben leggibili. L’unica cosa che in qualche modo potrebbe “compromettere” la lettura dell’interno della chiesa, ma non più di tanto, sono le tinteggiature applicate tra il 1823 e il 1824 nel corso del restauro di Carlo Emanuele Arborio Mella, fatto a titolo gratuito. Era il padre di Edoardo – ben più famoso restauratore di edifici medievali piemontesi, nonostante non fosse molto stimato da alcuni suoi contemporanei, come Alfredo d’Andrade – e durante il suo restauro fu ritrovato, nell’intercapedine di un muro del coro, il grande cofano con smalti limosini, appartenente a Guala Bicchieri, che oggi si conserva a Torino, a Palazzo Madama. Nonostante questo intervento, ripeto, la chiesa è sostanzialmente ben leggibile e ci consente di capire molto bene la sua importanza nel panorama architettonico del tredicesimo secolo.
È davvero la prima chiesa gotica italiana?
Sì, lo è. Fermo restando che deve comunque essere letta all’interno della dialettica tra gli apporti francesi, che sono assolutamente indubitabili, e quelli provenienti da una cultura di matrice emiliana. Per esempio, il doppio loggiato che si vede in facciata è sicuramente una “riduzione” dei loggiati che si vedono nella facciata della Cattedrale di Parma. Anche per quanto riguarda il corredo scultoreo, in particolare la lunetta del portale maggiore con il martirio di Sant’Andrea mostra un’aria di famiglia con il modello emiliano, pur non essendo opera di Benedetto Antelami. Non è prudente sostenere il contrario, dato che l’ultimo documento che attesta l’attività del maestro risale al 1216 mentre la posa della prima pietra di Sant’Andrea data al 1219 e il cantiere si prolunga fino al 1230-35, quando non è certo che l’Antelami fosse ancora vivo.
E gli influssi culturali e architettonici di Parma come mai arrivano fino a Vercelli?
Beh, Parma è stato un cantiere importantissimo, un crocicchio di diverse culture architettoniche, scultoree e probabilmente pittoriche anche se ormai abbiamo perso l’opportunità di ammirare gli affreschi della fase originaria. Era quindi un modello di grande prestigio che abbina temi architettonici diversi, non così facili da rintracciare in altre chiese italiane dello stesso periodo. Bisogna dire che tutte le cattedrali emiliane hanno avuto veramente un influsso importante perché furono il teatro di maestri come Lanfranco, Nicholaus o Wiligemo, punte di diamante della storia dell’arte dei primi decenni del dodicesimo secolo. Sant’Andrea eredita molto in questo senso. Invece la scelta di costruire due torri scalari in corrispondenza degli spigoli della facciata è un elemento ereditato dall’architettura preesistente nel territorio. Per esempio, nella Cattedrale di Novara, oggi distrutta e sostituita da quella di Antonelli, o in San Giulio d’Orta. Tutto questo per dire che all’inizio del Duecento non era indispensabile guardare oltralpe per cercare dei modelli di facciata quale quella di Sant’Andrea.
Beh, solitamente si ha l’idea che il Gotico sia un linguaggio artistico imposto da fuori.
All’epoca sicuramente una ristretta cerchia di intellettuali era consapevole che il nascente stile gotico proveniva da una certa area geografica (l’Île-de-France), che fosse «opus francigenum». Al contempo, alla fine del Trecento, sui ponteggi del cantiere del Duomo di Milano s’incontrano maestranze francesi, tedesche e boeme scelte perché più abili e capaci delle maestranze italiane nella costruzione di edifici con quei caratteri architettonici. Ovviamente dobbiamo considerare che l’etichetta «gotico» è stata formulata ben più tardi, nel tardo Quattrocento, con una connotazione negativa, identificando in quello stile il gusto dei francesi, malvisti in quel periodo storico. Per di più il Gotico venne associato anche a un secolo, il Trecento, in cui capitò di tutto, dalla Peste Nera alla crisi economica. Tuttavia, nell’epoca di cui parliamo penso che in Italia quasi nessuno si sia posto il problema di costruire edifici come quelli francesi, di importare «stili nazionali» o cose simili. Sant’Andrea di Vercelli, nello specifico, ha modelli architettonici provenienti dal retroterra lombardo ed emiliano mescolati ad altri inglesi e francesi. Questi ultimi erano il frutto dei viaggi che Guala Bicchieri, il fondatore dell’abbazia, svolse in qualità di legato papale. Tra il 1207 e il 1208 egli fu mandato in Francia, poi in Inghilterra. Fermandosi a Parigi, entrò in contatto con i canonici di San Vittore, i cosiddetti Vittorini, che formeranno la prima comunità di Sant’Andrea: il primo abate, Tommaso Gallo, eletto nel 1224, apparteneva appunto alla canonica di San Vittore. Resta ancora da capire il ruolo che il Gallo può avere avuto nel progetto, dato che la basilica, al suo arrivo, era già ben avviata (la costruzione terminò tra il 1230 e il 1235).
Riusciresti a identificare tre elementi della basilica per cui vale la pena il viaggio?
Uno è sicuramente la dialettica tra culture architettoniche diverse. Altrove la possibilità di vedere questa mescolanza tra uno stile francese-inglese e uno nord-italiano non si ha facilmente. Sono però molto significativi anche i campanili della facciata, che erano pensati più in funzione della praticabilità delle gallerie che per ragioni connesse alla liturgia. Su questo argomento è importante ricordare che Sant’Andrea è uno dei pochi esempi di chiesa con galleria esterna; anche in Francia questo elemento è presente nella Cattedrale di Laon e in pochissimi altri casi. C’è poi il campanile più tardo, quello quattrocentesco, che è palesemente sghembo rispetto al corpo longitudinale della chiesa. Molto affascinante e di difficile contestualizzazione è il coro: esso risente dell’influsso cistercense, ma di fatto è un coro a cappelle scaglionate con terminazione piatta, un modello in voga nei secoli precedenti, ma che aveva perso popolarità al momento della costruzione di Sant’Andrea di Vercelli. Non dobbiamo poi dimenticare le pertinenze: il chiostro, restaurato da un giovanissimo Paolo Verzone (a mio avviso il più grande studioso italiano di storia dell’architettura medievale del Novecento). È difficile in definitiva fare una classifica: l’abbazia nel suo complesso, con l’ospedale che sorgeva li vicino, è un «fossile guida» importante per comprendere la storia dell’architettura italiana di quel periodo.
Abbiamo qualche notizia sui costruttori o sulle maestranze impiegate?
In un necrologio quattrocentesco è nominato un Joannis Dominici Brigintii. Una tradizione, della quale peraltro le ricerche recenti di Martina Schilling non hanno escluso l’attendibilità, lo ha identificato con l’architetto di Sant’Andrea di Vercelli. In realtà non ci sono prove documentarie, nel modo più assoluto. Anche le maestranze sono un grosso problema, perché anche qui non è chiaro se Guala Bicchieri abbia precettato maestri francesi o addirittura inglesi. Probabilmente non accadde, perché le operazioni legate alla costituzione di una comunità di canonici regolari erano iniziate già nel 1215, quindi prima ancora che Guala andasse in Inghilterra e poi passasse da Parigi. Altra ipotesi sul tavolo è che si sia trattato di maestranze locali profondamente istruite sui modelli architettonici di terre lontane, quali Francia o Emilia. Non è una chiesa piemontese, tanto per dirlo chiaramente, o nordoccidentale, visto che allora la parola Piemonte nemmeno esisteva. In definitiva un edificio di questa importanza ha avuto certamente una paternità prestigiosa e non essere in grado di dare un nome a questo architetto è un peccato, anche se tra medievisti siamo abituati!
I recenti restauri hanno fatto emergere qualche novità?
I restauri sono stati essenzialmente conservativi, ed erano anche indilazionabili perché sia la facciata sia il campanile stavano espellendo elementi del paramento murario. Sono però stati fatti esami dei litotipi: una delle particolarità di Sant’Andrea di Vercelli è che quasi tutta la sua facciata è rivestita di pietra verde ed è stato appurato che si tratta di prasinite, un litotipo particolarmente diffuso nel Canavese come nel Vercellese occidentale: lo troviamo, infatti, anche in altri cantieri del territorio. Chiaramente con una campagna di lavori un po’ più estesa ci sarebbe la possibilità di capire qualcosa in più.
Sappiamo qualcosa sull’influenza che questo cantiere ebbe tra i contemporanei? Tanto per restare in territorio vercellese, per esempio, si dice che il campanile dell’Abbazia di Santa Maria a Lucedio sia molto simile al tiburio di Sant’Andrea.
Sì, l’Abbazia di Lucedio è stata studiata anche da Carlo Tosco, uno dei massimi studiosi attuali di storia dell’architettura medievale; in questo caso il problema è capire cosa viene prima e cosa viene dopo. Perché c’è chi sostiene che il campanile di Lucedio risalga all’inizio del tredicesimo secolo e chi invece sostiene si debba parlare della fine del secolo. Personalmente sono più propenso a collocarlo alla fine, data la presenza di aperture monofore con terminazione ad arco a sesto ribassato, caratteristica che sul territorio si ritrova solo nel Gotico pieno. Quindi è possibile che il tiburio di Sant’Andrea abbia costituito una traccia per l’impaginazione del campanile di Lucedio. Inoltre, la particolarità del tiburio di Sant’Andrea di Vercelli, quella di essere una torre nolare ottagonale, aveva certo dei precedenti: per esempio, dalla veduta del 1682 pubblicata nel Theatrum Sabaudiae sappiamo che anche la chiesa di San Bernardo, poco lontana da lì, aveva una torre nolare dalla conformazione simile. Oggi qui esiste soltanto l’elemento basale del tiburio e non c’è più la torretta dall’ingombro più ridotto che vedevamo nel Theatrum, dove però si notavano delle ghimberghe triangolari, il che invita a non escludere che almeno in parte si trattasse di un intervento di età gotica. Oppure la torre di Santa Maria Maggiore, chiesa canonicale importantissima (purtroppo distrutta nel 1777) consacrata nel 1148 da papa Eugenio III alla presenza di Bernardo di Chiaravalle e sedici tra vescovi e arcivescovi delle diocesi limitrofe. Lì risiedeva un capitolo molto importante, non solo in città, tanto che nel 1149 il maior aveva avuto dallo stesso Eugenio III l’autorizzazione a indossare la mitra riservata ai vescovi. Sempre dal Theatrum Sabaudiae sappiamo che anche questa chiesa aveva una torre nolare piuttosto slanciata, con almeno due livelli, forse simile a quella di Ognissanti di Novara.
Torniamo sull’influenza di Sant’Andrea.
Sì, non è facile trovare edifici che abbiano risentito più di tanto dell’influsso di Sant’Andrea. Restando a Vercelli la torre degli Avogadro, costruita nel Quattrocento e poi convertita in torre campanaria della chiesa eremitana di San Marco, ha impianto ottagonale, ma escludo che ciò sia dovuto all’influsso del tiburio di Sant’Andrea. Se consideriamo che i tiburi erano comunemente ottagonali, non è detto che quello di Sant’Andrea fosse un modello significativo più di altri. Bisognerebbe invece, secondo me, scandagliare di più il rapporto tra Sant’Andrea e la canonica di Vezzolano, perché di fatto sono i due cantieri in assoluto più “francesizzanti” del Piemonte. Quando dico Vezzolano penso alla facciata e, soprattutto, allo jubé, che tra l’altro presenta anche un grosso problema di datazione: normalmente lo si considera risalente al 1230 circa, anche se si conserva un’iscrizione del 1189 con un commento alla serie di raffigurazioni sacre lì rappresentate. Ed è un’iscrizione ancora da spiegare, come Aldo Settia ha evidenziato in più occasioni. Ma lo jubé è importante per l’argomento della nostra intervista perché è stato associato alle sculture del portale di Sant’Andrea di Vercelli: per entrambe si è sostenuto esserci stato un unico modello, la Porta Picta della Cattedrale di Losanna. Però non è detto che ne derivi un rapporto di dipendenza diretta tra il cantiere di Vezzolano e quello di Sant’Andrea.
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Un particolare poco noto: le porte della Basilica di Sant’Andrea di Vercelli sono di legno di vite. Vedi Enciclopedia Treccani alla voce “Vite” cap. Fusto . Giovanni Dalmasso, Viticoltura moderna Ed.1957 Ulrico Hoepli Milano pag.31
Fossanova e Casamari in gotico cistercense, non sono forse di un decennio più vecchie?