Fascismi o fascismo? Come si è generato un movimento poi diventato partito e infine regime? Ripercorriamo brevemente la storia di alcuni «fasci» che hanno preceduto e accompagnato l’evoluzione di quello di Mussolini negli anni infuocati dell’interventismo, della guerra e del dopoguerra.
Di Claudio Vercelli.
La nascita del movimento dei Fasci Italiani di Combattimento prese il suo avvio con l’assemblea tenutasi il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano (in una sala della sede dell’Alleanza Industriale e Commerciale), per volontà di Benito Mussolini e del gruppo di esponenti dell’interventismo e del nazionalismo che ruotava intorno alla sua figura. Si presentava come erede diretto dei Fasci di Azione Rivoluzionaria Interventista. Già il 2 marzo su Il Popolo d’Italia era apparsa una comunicazione con la quale s’indiceva una riunione programmatica per l’istituzione di una nuova organizzazione politica. Nei giorni successivi le prime adesioni iniziarono a pervenire. Una settimana dopo l’invito fu ripetuto, sottolineando che «il 23 marzo sarà creato l’ʹantipartitoʹ, sorgeranno cioè i Fasci di Combattimento, che faranno fronte contro due pericoli: quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra».
Storia di un aggettivo
L’aggettivazione «fascista» per definire un’organizzazione fu adottata con tutta probabilità per la prima volta in pubblico durante l’agitazione dei Fasci dei lavoratori siciliani nel 1893. Mussolini la usò molto dopo su Il Popolo d’Italia per definire i «nuclei di forti e di volitivi» che si stavano attrezzando per muovere guerra contro gli imperi centrali, spronando il governo italiano in tal senso. Di essi celebrava una sorta di spirito volontaristico, anarcoide e pseudolibertario: «Non vogliono avere le regole e le rigidità di un Partito, ma sono e vogliono restare una libera associazione di volontari: pronti a tutto: alle trincee e alle barricate. Io penso che qualche cosa di grande e di nuovo può nascere da questi manipoli di uomini che rappresentano l’eresia ed hanno il coraggio dell’eresia». Nel dicembre del 1918, sulla rivista Energie nove, da lui fondata, un giovanissimo Piero Gobetti qualificava come «fascisti» i senatori e i deputati antigiolittiani che avevano aderito subito dopo Caporetto al Fascio Parlamentare per la Difesa Nazionale. La Grande Guerra aveva infatti profondamente inciso nel ripetuto ricorso alla parola, indicando per convenzione ormai assodata quanti s’identificavano, a prescindere dalla propria appartenenza politica, sul versante interventista e antineutralista.
Un movimento trasversale
Il 23 marzo 1919 tra i cento e i duecento astanti, perlopiù provenienti dalla sinistra, accomunati dall’aver appoggiato e partecipato alla Grande Guerra, avviarono un percorso politico dai tratti inediti, imprevedibili, comunque caratterizzato dall’obiettivo di rompere i crismi delle appartenenze precedenti. La questione di fondo era infatti quella più generale della collocazione nel quadro politico del dopoguerra di una parte di quanti erano stati interventisti. Anche per questa ragione problematica i Fasci vollero da subito presentarsi come movimento e non in quanto partito, lasciando ai loro militanti la possibilità di continuare ad aderire ad altre formazioni e, quindi, enfatizzando il carattere trasversale e aperto della propria identità. Secondo un modello concettuale tipico del nazionalismo, d’altro canto, si rifiutava la natura di «parte» che gli stessi partiti invece rivendicavano per se stessi, denunciandone il carattere semmai divisivo. I locali della sede milanese furono arredati dai simboli dell’arditismo: pugnale, gagliardetti, teschi, bombe a mano, in sintonia con la fresca memoria dei combattimenti, ma anche e soprattutto con la crescente retorica della politica come lotta esclusivista, di mera sopraffazione, ovvero come il proseguimento della guerra con altri mezzi, al netto di qualsiasi tentazione residua d’intenderla come mediazione.
Fasci Autonomi di Azione Rivoluzionaria
Fondati da Benito Mussolini, già direttore dell’Avanti!, espulso il 29 novembre 1914 dal Partito Socialista Italiano, l’11 dicembre 1914 vennero fusi con i Fasci di Azione Internazionalista nei Fasci di Azione Rivoluzionaria Interventista.
Fasci di Azione Rivoluzionaria Interventista
I Fasci di Azione Rivoluzionaria Interventista furono un movimento di mobilitazione collettiva, nato l’11 dicembre 1914 per volontà di Filippo Corridoni e Angelo Oliviero Olivetti a Milano e quindi patrocinato da Benito Mussolini e Alceste De Ambris. Era strettamente legato al circuito degli interventisti rivoluzionari, che raccoglieva elementi della sinistra radicale, del repubblicanesimo intransigente, del sindacalismo rivoluzionario e dell’irredentismo trentino, giuliano e dalmata. Come tale, s’ispirava al manifesto programmatico denominato Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista, firmato il 5 ottobre 1914 da un gruppo di interventisti e sindacalisti rivoluzionari dell’Unione Sindacale Italiana (tra i quali Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris, Cesare Rossi e Michele Bianchi, quest’ultimo primo segretario del Partito Nazionale Fascista). In esso si asseriva la necessità dell’impegno bellico come momento di catarsi storica, politica e sociale contro le potenze conservatrici rappresentate dagli imperi centrali. Il manifesto fu pubblicato da Mussolini sul Popolo d’Italia del 1° gennaio 1915. Al primo congresso, nello stesso mese, i Fasci potevano contare su un seguito di poco meno di diecimila elementi. Nel maggio del 1915, con l’ingresso dell’Italia nel conflitto, il movimento esaurì di fatto le sue funzioni di promozione dell’intervento. Nel 1919 buona parte dei suoi promotori confluì nei Fasci Italiani di Combattimento.
Fascio Parlamentare per la Difesa Nazionale
Costituito sotto la guida di Maffeo Pantaleoni, nel dicembre 1917, dopo la rotta di Caporetto, raccoglieva tutti gli interventisti, sia di destra sia di sinistra, tra i quali gli stessi nazionalisti e futuristi. Dall’originario fascio parlamentare ne derivarono, per filiazione, diversi altri, tra i quali il Fascio Nazionale Italiano, il Fascio Romano per la Difesa Nazionale, la Federazione dei Fasci di Resistenza. In comune avevano la rilettura della guerra in corso come impegno di «resistenza» alla minaccia austrotedesca, attraverso la richiesta di adottare una ferrea disciplina di guerra, il ricorso alla mobilitazione civile, la costituzione di un’armata di volontari, l’utilizzo nelle zone di combattimento dei militari mutilati che ne avessero fatto richiesta, l’introduzione di misure vessatorie e persecutorie (arresto, internamento, confisca dei beni) nei riguardi dei civili appartenenti a paesi ostili, l’azione sistematica contro gli «imboscati» e, soprattutto, l’«assoluta certezza che la concordia nazionale non verrà turbata (e sarebbe tradimento della patria) col ritorno al governo di uomini che avversano le ragioni ideali ed immanenti della nostra guerra» (così nella petizione inviata dal Comitato Italiano di Resistenza Interna al Parlamento). Il riferimento a Giovanni Giolitti era implicito. Il Fascio Interventista venne esaurendo le sue ragioni con la fine della guerra.
L’arditismo
Inizialmente la parola indicava uno stile di combattimento militare e le unità combattenti del Regio Esercito (le «fiamme nere», dal colore delle mostrine), istituite nell’estate del 1917 presso la II Armata al comando del generale Luigi Capello, su iniziativa del tenente colonnello Giuseppe Alberto Bassi. La medesima parola, nel primo dopoguerra, è servita poi a definire una generica area politica composta perlopiù di reduci, poco proclivi alle mediazioni parlamentari e alla rappresentanza democratica, essendo semmai abituati a ricorrere alle vie di fatto. L’arditismo è sinonimo di temerarietà, ma anche di tendenziale insubordinazione. Così Giuseppe Bottai, prima tenente di un reparto d’assalto durante la guerra e poi squadrista: «Gli ‘arditi’ non furono una specialità dell’esercito, ma una categoria ideale del popolo italiano». A coloro che venivano scelti per entrare nei reparti militari venivano richieste particolari qualità, tra le quali una marcata aggressività, la propensione a compiere azioni fuori dall’ordinario, una forte vocazione al nazionalismo più accentuato. Il vitalismo, come l’abitudine a fare ricorso sistematico alla violenza, ne erano componenti indispensabili, accompagnandosi all’insofferenza per i lunghi tempi morti che caratterizzavano la vita in trincea, tra un combattimento e l’altro. Da ciò derivò quindi uno spiccato senso di corpo, che si tradusse nell’autoidealizzazione della propria appartenenza in quanto espressione di un’élite del combattimento.
Il mito dell’arditismo
Agli arditi è attribuito il motto «A noi!», l’uso di gagliardetti neri e di simbolismi che rimandano alla morte, il saluto con il pugnale sguainato, più in generale l’esibizione sfrontata di atteggiamenti sprezzanti, nel nome del coraggio e della determinazione al limite dell’avventatezza. L’insieme di queste caratteristiche contribuì quindi a creare una vera e propria mitologia dell’arditismo che, nell’immediato dopoguerra, fu recuperata e trasformata in strumento politico. Soprattutto laddove una parte di loro identificò tra i nemici dell’Italia non solo le potenze straniere, ma anche i «pavidi», i «traditori», gli «imboscati», i «vigliacchi», epiteti che, di volta in volta, erano distribuiti a una parte dei civili, alla borghesia liberale, al ceto politico tradizionale e ai movimenti socialisti. «Il loro contributo originale al primo fascismo consistette, oltre che nella messa in circolo di una terminologia religiosa, di canti, simboli e gesti che diventeranno elementi costitutivi della ritualità fascista, nel culto dell’azione e nell’esercizio della violenza, esaltata come manifestazione di coraggio e strumento necessario per ‘liberare la nazione dai suoi denigratori’» (Gianfranco Porta). Lo stesso squadrismo s’ispirò alle tecniche di aggressione e di sopraffazione dell’arditismo. Quanti tra coloro rifiutarono di essere omologati al nascente fascismo diedero vita nel 1921 alla breve esperienza degli Arditi del Popolo, organizzazione paramilitare avversa al nascente regime, alla quale aderirono, fino al suo scioglimento a Parma nel 1922, circa ventimila militanti. Il resto dell’arditismo sarebbe poi stato canonizzato dal regime fascista, dopo il 1922, all’interno della mitologia combattentistica, perdendo tuttavia qualsiasi residua vitalità e autonomia politica. Un ritorno di fiamma si sarebbe verificato solo nei seicento giorni dell’effimera Repubblica Sociale Italiana, quando le sue milizie avrebbero rivendicato il recupero dello spirito originario degli arditi, tuttavia piegandolo all’idea del combattimento come ricerca della «bella morte».
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