In linea con quanto accadeva in Europa, a Torino, nel corso dell’Ottocento, si svolsero diverse esposizioni al fine di presentare quei prodotti e manufatti che ben rappresentassero il livello d’innovazione e progresso raggiunto dal giovane Stato italiano. Nel 1898 l’esposizione di arte sacra tentò di ricucire la ferita tra cattolici e liberali: fu un primo timido tentativo di riavvicinamento.
Di Elisabetta Pauletti.
La progettazione di queste enormi rassegne espositive comportava, accanto a un grande lavoro di carattere organizzativo, l’allestimento e la realizzazione di una lunga serie di architetture, padiglioni, gallerie, facciate di edifici, spesso anche di notevole pregio, che venivano sempre abbattute alla conclusione dell’evento. Di fatto, «alla fine della fiera» sorgeva sempre la questione sull’opportunità di salvare alcune di queste strutture, pur nate per essere effimere. Così, dell’esposizione del 1884 furono conservati il Borgo Medievale e la Rocca; di quella del 1898 ci è rimasta la fontana dei Dodici Mesi, all’estrema propaggine meridionale del parco del Valentino, realizzata, come del resto l’ampio apparato degli edifici poi demoliti, dall’architetto Carlo Ceppi. La grande vasca ovale segue la pendenza naturale del terreno, che digrada verso il fiume, ed è in parte chiusa da una balaustra ornata da 12 statue femminili che rappresentano i mesi dell’anno. Sul lato più alto, una terrazza ellittica con quattro gruppi di statue raffiguranti i quattro fiumi che bagnano Torino chiude scenograficamente la fontana monumentale. Oggi solo la fontana, unica superstite, ci ricorda l’esposizione generale italiana del 1898. La complessità e l’ampiezza delle strutture effimere che allora, allestite con grande fasto e poi distrutte, arricchirono gran parte del parco del Valentino e le strade adiacenti, ai giorni nostri possono essere apprezzate solo attraverso vecchie foto, cartoline, riproduzioni.
L’esposizione della «concordia».
L’evento, comunque, fu caratterizzato da una straordinaria novità, e cioè che gli si affiancò una manifestazione per alcuni aspetti analoga e per altri in completa competizione: l’esposizione di arte sacra. Come si giunse a questa particolare commistione nonostante attriti e contrasti? In città, fin dal 1895, fervevano i preparativi per la celebrazione dei cinquant’anni dello Statuto Albertino. Doveva essere un’occasione per rimarcare i grandi progressi compiuti nel mezzo secolo di vita del regime liberale, che stava attraversando allora una profonda crisi di consenso anche a causa dell’avanzata del movimento cattolico. Le difficoltà e le polemiche che sorsero in merito alla collaborazione tra cattolici e liberali per il successo della manifestazione fecero sì che prese corpo l’iniziativa dell’esposizione d’arte sacra che sottolineasse l’evoluzione e lo sviluppo portati avanti non in 50, ma in quasi 2000 anni: la Chiesa, nella sua storia, aveva dato un grande contributo alla civiltà e all’arte. Così, gli ideatori e i fautori dell’impresa individuarono gli anniversari di fatti decisivi per le vicende religiose della città. Ben 1500 anni prima, nel 398, san Massimo vescovo aveva convocato il concilio di Torino, prima testimonianza della città quale sede episcopale; al 1498 risaliva la dedicazione del nuovo duomo rinascimentale a San Giovanni Battista; infine, nel 1598, Clemente VIII aveva approvato il culto delle reliquie di san Valerico, compatrono della città, ed erano state fondate due importanti istituzioni, la confraternita del Santo Sudario e quella di San Rocco.
Dopo un processo di lento avvicinamento e di superamento di diffidenze e sospetti, l’accordo tra i due comitati esecutivi, tra cattolici e liberali, sancì la completa autonomia, pur nella collaborazione, delle due iniziative. Questa totale indipendenza reciproca fu accentuata dalla netta separazione delle due aree, pur contigue, dove si sarebbero sviluppati i padiglioni. Corso Massimo d’Azeglio costituì la cerniera tra le due zone: l’esposizione generale si svolse al parco del Valentino, quella d’arte sacra si sviluppò nel quadrilatero compreso tra via Monti, via Madama Cristina, corso Raffaello e ancora corso d’Azeglio. Tuttavia, un collegamento c’era: un ponte che scavalcava il corso e che consentiva ai visitatori di spostarsi con agio da una zona all’altra. E fu Umberto I che, in visita al cantiere una settimana prima dell’inaugurazione, definì questa struttura «ponte della concordia», e il nome gli rimase.
Cattolici di tutto il mondo: unitevi!
Di tutta l’area «religiosa» l’edificio più grande era quello dedicato all’arte sacra, suddiviso in diverse sezioni: da quella musicale (con documenti, incunaboli, partiture e manoscritti) a quella di architettura (con disegni, rilievi, calchi) a quella di arte antica (che esponeva reperti archeologici, smalti, avori, tessuti, paramenti e arredi sacri) a quella dei codici sacri. C’era poi un padiglione d’arte moderna, con opere contemporanee di pittura, scultura e artigianato. Tutti questi manufatti erano giunti dalla maggior parte delle diocesi della Penisola, a dimostrazione di quanto importante fosse ritenuta la manifestazione. Ma certo la sezione delle missioni cattoliche fu quella che destò più curiosità e interesse. Fermamente voluta da Roma per le forti implicazioni ideologiche che portava con sé, era dislocata in una serie di edifici che rispecchiavano le caratteristiche dei paesi di provenienza: quello delle missioni americane era in stile gotico inglese; quello delle missioni di Terrasanta riproduceva l’ingresso laterale del Santo Sepolcro e al suo interno presentava motivi ornamentali bizantini; l’edificio delle missioni ottomane era in stile moresco e quello delle missioni d’Asia era ispirato alla Birmania, con un doppio tetto dorato e rosso. Infine, il padiglione delle missioni africane era un capannone con una grande tettoia ricoperta di paglia e con stuoie colorate alle pareti e sul soffitto. All’interno dei fabbricati manufatti e prodotti di vario genere volevano illustrare con cura luoghi e ambienti di provenienza e, soprattutto, le opere di carità in giro per il mondo. Ma erano le persone che animavano gli edifici e il cortile comune a colpire di più i visitatori: quegli indigeni con la pelle delle più varie gradazioni di bronzo, giallo, olivastro, marrone, nero; i loro strani abiti, i cappelli, le calzature lasciavano esterrefatti quanti si aggiravano dentro e fuori quelle bizzarre strutture. La ricostruzione di scene di vita quotidiana di beduini, abissini, pellerossa, cinesi – solo per citarne alcuni – alimentavano la fantasia dei torinesi in visita, che rimanevano sbalorditi nel vedere confermate voci e notizie su popoli lontani spesso ritenute solo invenzioni.
Secondo Pia e «la prima ostensione moderna».
L’inaugurazione ebbe luogo il 1° maggio alla presenza del re e della regina, che, dopo la solenne apertura dell’esposizione generale, giunsero nella cappella dell’altra parte, dove li attendeva il vescovo di Torino, monsignor Richelmy. L’esposizione d’arte sacra chiuse i battenti il 10 novembre (quella generale venne prorogata fino al 20) e registrò nel suo complesso un grande successo: gli espositori furono oltre 2000 e i visitatori quasi 700.000. L’esito tanto positivo dell’evento fu dovuto anche a importanti iniziative concomitanti, che il mondo cattolico torinese riuscì a organizzare quali complementi dell’esposizione stessa: l’inaugurazione del monumento a Don Bosco a Castelnuovo d’Asti (ribattezzata poi Castelnuovo Don Bosco) e il terzo congresso mariano. Ma fu soprattutto l’ostensione della Sindone a richiamare migliaia di pellegrini nel capoluogo piemontese. Erano passati trent’anni dall’ultima volta che il Santo Sudario era stato esposto alla venerazione dei fedeli. E quella del 1898 può considerarsi la prima ostensione di carattere moderno. Infatti, se fino ad allora il Sacro Telo era tenuto in mano dai vescovi per una ventina di minuti per esporlo alla vista e alla devozione, da quell’anno fu sempre sistemato all’interno di una cornice e posto in duomo. L’occasione era stata il matrimonio del principe ereditario Umberto con la principessa Margherita di Savoia. Ora, dopo tre decenni, le circostanze erano favorevoli a una nuova ostensione che poteva ben inserirsi nel programma dell’esposizione.
E così fu. Dopo un’efficiente e accurata pianificazione della gestione dei visitatori, degli orari, dei percorsi, si fissarono le date, dal 25 maggio al 2 giugno. Il primo giorno, nella cappella del Guarini, davanti all’arcivescovo di Torino Agostino Richelmy, ad altri vescovi e alla corte, fu aperta la grata dell’altare, estratta la cassetta, i sigilli e venne spiegata la Sindone, che fu venerata dai presenti. Poi fu di nuovo arrotolata, riposta nella cassetta e portata in processione in duomo fino all’altare maggiore. Qui avrebbe dovuto essere sistemata in una cornice di legno realizzata apposta, ma solo allora ci si accorse che erano state prese o trascritte misure sbagliate e che il telaio e la cornice erano troppo corti. Ma non c’era più tempo per rimediare; fu deciso di ripiegare la stoffa, così che i fedeli non poterono vedere la figura intera che vi era impressa. Questo fatto è testimoniato anche dalle fotografie che Secondo Pia ebbe l’autorizzazione di scattare e che rivelarono la straordinaria resa dell’immagine sulla lastra del negativo, molto diversa da quella che ci si sarebbe potuti attendere da un semplice manufatto. È da quel momento che inizia la ricerca scientifica sulla Sindone: studiosi, ricercatori ed esperti di settori specifici applicano i loro metodi e le loro conoscenze all’indagine sul reperto, non con lo scopo di certificarne l’autenticità ma per approfondirne le caratteristiche e, fin dove possibile, l’origine.
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