Pietro Pantoni fu l’ultimo boia di Torino, chiamato a sostituire Gaspare Savassa, che i torinesi chiamavano «Gasprin».
Di Pier Luigi Bassignana.
Pietro Pantoni era nato a Reggio Emilia ed era, per così dire, figlio d’arte: il padre Antonio era boia a Modena, mentre il fratello Giuseppe lo era a Parma. E proprio presso il fratello il giovane Pietro svolse tutto il noviziato, concludendolo con l’esecuzione di un condannato d’eccezione: Ciro Menotti.
Ciro Menotti
Per la verità, a eseguire la condanna avrebbe dovuto essere il padre Antonio, dal momento che i fatti si svolgevano a Modena: ma siccome la condanna di Menotti aveva suscitato parecchia indignazione, il duca Francesco IV temeva che l’apparizione in pubblico di colui che avrebbe giustiziato l’eroe (ché tale lo riteneva il popolo) avrebbe potuto generare tumulti. Si preferì pertanto chiamare da Parma il figlio Giuseppe, che giunse accompagnato dal fratello Pietro. E siccome quel giorno oltre a Menotti si doveva giustiziare anche l’avvocato Morelli, i due fratelli decisero di spartirsi le esecuzioni tirando a sorte. E fu così che a Pietro toccò di giustiziare Ciro Menotti.
Giunto a Torino con seguito di moglie e figli, Pietro Pantoni, sostituì Gaspare Savassa Gasprin, boia dalla carriera lunghissima, iniziata ancora durante l’Ancien Régime e proseguita senza intoppi durante l’occupazione francese, quando da boia aveva dovuto riciclarsi a manovratore di ghigliottina.
Anziché occupare l’appartamento di via dei Fornelletti (oggi via Bonelli) che l’amministrazione sabauda metteva a disposizione del boia, Pantoni andò a occupare alcuni locali all’ultimo piano delle carceri senatorie in via del Senato (oggi via Corte d’Appello).
Un mestiere redditizio
Per l’eccezionalità dei compiti ch’era chiamato a svolgere, in genere siamo portati a pensare al boia come a una figura borderline, fuori dagli schemi della vita quotidiana di ciascuno di noi. Ma non è così. Il boia era un normale impiegato statale di alto livello, almeno a giudicare dagli emolumenti che gli venivano corrisposti. Quando giunse a Torino, a Pietro Pantoni fu riconosciuto uno stipendio annuo di 1200 lire. Una somma notevole, se si considera che è la stessa che venne corrisposta a Quintino Sella come professore universitario di prima nomina. D’altro canto, in quegli anni un maestro elementare, al culmine della carriera, raggiungeva a stento le 600 lire annue.
Ma lo stipendio di Pantoni era destinato a lievitare in brevissimo tempo. Occorre considerare che quella dei boia era una categoria ristretta, costituita da pochissime persone, spesso imparentate fra di loro. Capitava perciò che, se a uno di loro era riconosciuto qualche miglioramento economico, in brevissimo tempo veniva richiesto anche da tutti gli altri: che di solito lo ottenevano. Capitò perciò che anche a Pantoni, che doveva provvedere a cinque figli, fossero tosto riconosciuti due aumenti per complessive 900 lire.
Ma non era ancora tutto, perché, in funzione della sua attività, aveva diritto ad alcune indennità: se l’esecuzione avveniva fuori Torino (per esempio a Genova), a Pantoni spettavano 22 lire per ogni impiccato e 16,20 lire di diaria giornaliera. Inoltre, sempre per ogni impiccato, gli spettavano ancora 24 lire d’indennità sostitutiva dell’antico privilegio di vendere in esclusiva il grasso degli impiccati, che secondo il popolino possedeva straordinarie virtù curative.
La solitudine del boia
Insomma, Pantoni avrebbe potuto essere considerato un buon partito, se non avesse dovuto scontare l’eccellente condizione economica con il disprezzo universale. Quando non era nell’esercizio delle sue funzioni, Pantoni era condannato a starsene chiuso in casa, perché nessuno voleva aver nulla a che fare con lui. L’unica persona che ogni tanto interveniva a mitigare la sua solitudine era il canonico Giuseppe Cafasso, il confortatore ufficiale: la persona, cioè, che aveva l’incarico di assistere il condannato a morte nelle ultime ore che precedono l’esecuzione.
Per il boia mostrarsi in pubblico avrebbe rappresentato un’umiliazione continua. Quando andava in chiesa era tenuto a occupare un banco discosto da tutti gli altri, ma il culmine dell’umiliazione lo raggiungeva quando doveva ritirare lo stipendio. Quel giorno doveva trovarsi accovacciato per terra davanti alla porta del primo presidente della corte d’appello, che doveva firmare il mandato di pagamento. All’invito, sempre accovacciato, entrava nella stanza portandosi davanti al giudice. Il quale, indossato un paio di guanti mai usati e impugnando una penna nuova di zecca, provvedeva a firmare il mandato. Dopo di che, mentre guanti e penna venivano bruciati, un usciere prendeva il mandato con le molle del camino e lo buttava per terra. Pantoni lo prendeva e, rinculando, guadagnava la porta. E questo, tutti i mesi dell’anno!
Una giornata di lavoro di Pietro Pantoni
In pratica, Pantoni usciva di casa solo quando doveva svolgere i propri compiti. Per prima cosa, si recava al confortatorio, locale attiguo al carcere dove la sera prima dell’esecuzione era stato portato il condannato per trascorrervi la notte con l’assistenza di un sacerdote: compito svolto per molti anni da padre Talucchi e poi da Giuseppe Cafasso.
La nottata si concludeva con la somministrazione di un ultimo pasto: di solito una scodella di brodo caldo. Preso in consegna il condannato, Pantoni provvedeva a legarlo come un salame e poi lo aiutava a salire sulla carretta che doveva condurlo al patibolo: erano le undici del mattino in punto. Qui veniva circondato dai membri della Confraternita della Misericordia, di solito rappresentanti della nobiltà che – incappucciati per non essere riconosciuti – avevano il compito di assisterlo, anche al fine di evitare che desse in escandescenze; compito svolto anche dal drappello di militari a cavallo che circondavano la carretta.
Nel frattempo la campana del carcere – l’Areng – continuava a lanciare i suoi lugubri rintocchi. Facendosi largo a fatica attraverso una folla strabocchevole, che accompagnava lungo tutto il tragitto senza smettere un solo istante di rivolgere contumelie, insieme a lanci di sassi e immondizie varie contro il condannato (ma, se quest’ultimo per qualche ragione aveva incontrato il favore popolare, allora sassi e immondizie venivano indirizzati al boia), la carretta giungeva ai piedi del patibolo. Qui il boia procedeva a eseguire le attività più sopra descritte, e in quattro e quattr’otto giustizia era fatta.
Quando si verificava l’atto finale, la folla vociante ammutoliva di colpo seguendo con estrema attenzione quanto avveniva sulla forca: tutti erano interessati a contare con la massima precisione possibile il numero di giri e rigiri che avrebbe fatto la corda prima di arrestarsi definitivamente: numero che poi sarebbe stato giocato al lotto perché considerato «buono».
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