Il gianduiotto di Napoleone, ovvero un terzo di Corylus avellana, un terzo di Theobroma cacao e un terzo di zucchero: sono i tre ingredienti del primo cioccolatino incartato al mondo. Prese il nome dalla maschera del Carnevale torinese, Gianduia, ovvero il rubizzo Giôan d’la dôja (la botte di vino) al quale piaceva fare festa e scherzare. La storia di questo delizioso lingottino è straordinaria: infatti il suo «padre putativo» è addirittura Napoleone Bonaparte.
Di Clara e Gigi Padovani.
Il gianduiotto di Napoleone, perché? Dopo che nel 1806 l’imperatore francese decretò il «blocco continentale», per impedire i commerci delle navi britanniche tra le Americhe e l’Europa, il cacao divenne introvabile o troppo caro. Così gli artigiani torinesi si diedero da fare e inventarono un surrogato, sostituendo le preziose fave di Theobroma cacao con le nocciole di Langa e Monferrato. Fino a metà Ottocento, infatti, il cacao non era coltivato in Africa, ma soltanto nei paesi dell’America centrale e meridionale. Mancava anche lo zucchero di canna: l’idea di estrarre la dolce materia prima dalle barbabietole, facilmente coltivabili in Italia, fu dell’allora ministro dell’Agricoltura, Camillo Benso conte di Cavour.
Piano teorico-pratico di sostituzione nazionale al cioccolato
Di questa bella storia per spiegare i natali del gianduiotto esistono le prove. Si tratta di un piccolo opuscolo di una quindicina di pagine, pubblicato nel 1813 a Venezia dalla Stamperia Domenico Fracasso. È firmato da Antonio Bazzarini, eclettico autore di origine croate, poi stabilitosi a Torino, e aveva come titolo: Piano teorico-pratico di sostituzione nazionale al cioccolato. Ecco quel che scriveva nel «Discorso preliminare»:
La noce del Caccao albero sconosciuto a un tempo del nuovo Mondo ha saputo pur troppo smungere dalle borse europee que’ tanti millioni di volontario tributo, che un cieco entusiasmo prodigo profondea in favore d’estere nazioni, frattanto che i generi delle natie contrade, che ben possono equipararne il vanto, giaceansi negletti ne’ chiusi fondachi.
Traducendo dal linguaggio aulico dell’epoca, si può riassumere così l’appello dell’autore: perché spendere tanti soldi per il cacao, così costoso, quando in realtà vi sono prodotti italiani che lo possono sostituire? E quali? Le nocciole e le mandorle.
Ella fu già questione agitatissima, tra le più rinomate nazioni dell’industre Europa fin dal decorso secolo, se si possa, sotto un sì felice clima, formar, senza il concorso dell’Indiana mandorla [il cacao, N.d.A.], una composizione analoga al Cioccolato. L’affermarono i più concordi, ed unanimi; spinti da ciò appunto, non essere regione in Europa che non produca de’ vegetali assai nutritivi, ch’è in vero la proprietà principale dell’occidental nocciuola, quali ridotti in massa, e misti con altre sostanze formar possano una confezione al par del Cioccolato leziosa e salubre.
Bazzarini invitava gli artigiani a usare, oltre alle nocciole, le mandorle tostate, i lupini e il granturco. Al termine della lavorazione, spiegava l’opuscolo, si poteva aggiungere fino a un terzo di cacao, con il consiglio di usarlo come «vernice»: oltre a far diventare «il pezzo gradito e fragrante, il rende altresì più solido e più somiglievole anche nell’esteriore all’usual più perfetto».
La ricetta
Un surrogato in piena regola, con tanto di ricetta: 5 libbre di mandorle (o nocciole), un’oncia e mezza di lupini abbrustoliti, 2 libbre di granturco, un’oncia e mezza di cannella e vaniglia polverizzate, 3 libbre e 6 once di zucchero. Il composto si può abbrustolire come il caffè e poi macinare sulla stessa pietra «ove si lavora il Cioccolato». Inoltre è consigliato aggiungere la cannella e la «vainiglia» «per accrescerne la fragranza». La tradizione vuole che il primo a seguire i consigli di Bazzarini sia stato un giovane valdese, Michele Prochet. Va detto che i maestri dolcieri piemontesi ben conoscevano l’uso delle «tonde gentili» per confezionare il torrone, con miele e albume d’uovo. Le notizie non correvano come oggi e l’invenzione venne codificata soltanto qualche decennio dopo l’uscita di quel manuale, nel 1852.
Prochet
La rivista Il Dolce, editata a Torino dall’associazione degli industriali del settore, nel 1932 scrisse poi che «la pasta gianduia non è che un cioccolato con nocciuole tostate» e ne diede la paternità a Prochet. Sulle date non vi è certezza. È sicuro invece che nel 1878 i due cioccolatieri Caffarel & Prochet fusero le loro due aziende sotto un unico marchio. Anche in questo caso, come per la ruota sul Ceronda, l’unione fu originata da uno sposalizio. Michele Prochet aveva un fratello, Matteo: costui era un personaggio importante nella storia dei Valdesi.
A 26 anni, nel 1862, sposò la figlia di Pierre- Paul Caffarel, Milca, e nello stesso anno divenne pastore: per trent’anni fu presidente del Comitato di Evangelizzazione della Chiesa Valdese (una sorta di guida spirituale, come oggi è il moderatore della Tavola), poi Gran Maestro della Massoneria, infine fu nominato commendatore della Corona d’Italia.
E, grazie a questi prestigiosi ruoli, aiutò non poco il fratello Michel nella carriera commerciale. Scrive Alberto Viriglio nel suo libro Torino e i torinesi (1898): «Gianduia non è una maschera: è un carattere. Sotto apparenze d’ingenuità e ruvidezza cela talenti, prontezza d’espediente, ottimo cuore». Fu anche un eroe del Risorgimento, rappresentando, prima del 1861, le speranze di libertà dell’Italia ancora divisa.
Gianduia approva
Torino in quell’anno divenne la prima capitale italiana, con la sede del governo, del Parlamento e dei ministeri. Conservò quel ruolo, però, solo per quattro anni. Nel settembre del 1864 l’annuncio del trasferimento a Firenze della capitale – in dialetto fu battezzato il tramud – provocò disordini in città con quasi cinquanta morti. Bisognava risarcire i torinesi, furibondi per quell’affronto: per il Carnevale si volle tornare ai fasti delle feste sabaude, con le «Gianduieidi», ovvero la Gran Fiera Fantastica di Gianduia. Questa si tenne per la prima volta nel marzo 1866, con ricchi addobbi lungo la via Po, bancarelle, manifestazioni e padiglioni per il teatro dei burattini.
Gli artigiani esponevano la loro produzione: nel 1867, presso lo stand numero 97 in via Po, nell’isolato San Maurizio (tra le attuali via Rossini, Verdi e Montebello), fecero la loro comparsa i cioccolatini di Prochet. Pare risalga a quel momento il battesimo di questo goloso lingotto. La maschera cittadina Gianduia assaggiò quei givu (in dialetto piemontese significa «mozziconi»), ovvero i primi cioccolatini alle nocciole, e li apprezzò tanto da consegnare al fabbricante «un certificato speciale attestante la benemerenza della ditta, autorizzandola a chiamare con nome Gianduia il prodotto Torinese.
Da Torino all’Europa
Questo documento trovasi ancora oggi negli uffici della Succ. Caffarel Prochet & C di Torino» (dagli archivi dell’azienda Caffarel). Secondo la rivista Il Dolce, «la pasta gianduia era allora il miglior cioccolato esistente, poiché non si fabbrica va ancora il cioccolato al latte». E d’altra parte, finché durava il Carnevale, scrive ancora l’articolista Gagliano, «non era più il Re che comandava, ma Sua Maestà Gianduia che faceva decreti e leggi». Il matrimonio tra le nocciole e il cacao avvenne per necessità.
Ma Torino con quella nuova specialità riuscì a conquistare l’Europa. Nel 1911 al parco del Valentino, sulle rive del Po, si tenne una grande esposizione internazionale, che richiamò nei suoi padiglioni, sparsi su un’area di circa 120 ettari, almeno sette milioni di visitatori. «Per il cioccolato non temesi la concorrenza sì della Svizzera che della Francia », era scritto nel catalogo.
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