Con la guerra sulle Alpi occidentali iniziava, ottant’anni fa, l’aggressione italiana alla Francia, primo capitolo della nostra Seconda guerra mondiale. Come vissero l’inizio delle operazioni belliche le popolazioni che abitavano quelle valli e che da sempre guardavano alla Francia?
di Gianni Oliva
La guerra sulle Alpi occidentali inizia nel giugno 1940 con un piano operativo che non prevede uno schieramento idoneo all’attacco, ma solo una disposizione di truppe lungo la linea di confine a scopo deterrente e intimidatorio. Lo stato di guerra e il repentino spostamento di reparti verso il fronte hanno comunque un forte impatto sulla popolazione delle zone interessate e creano in Piemonte una situazione psicologica differente dalle altre regioni italiane.

Gli Alpini del Val Chisone (3° Reggimento Alpini) tra le case distrutte dai bombardamenti di Ristolas, nel Queyras francese (Archivio Terzo Alpini).
Un problema «etico»
Per i torinesi, i cuneesi, gli astigiani – così come per gli aostani – la Francia è da sempre un riferimento geografico, culturale, economico. Alle spalle ci sono la lunga stagione in cui i due versanti delle Alpi sono stati uniti nel ducato di Savoia e nel regno di Sardegna, le affinità delle tradizioni e delle attitudini, i tanti emigrati stagionali o permanenti che sono andati a lavorare a Parigi, nelle campagne della Provenza, nelle miniere del Nordest: molte famiglie sono sparpagliate nei due paesi, chi parla il franco-provenzale o il piemontese capisce facilmente chi usa il francese, l’area di diffusione dell’occitano è a scavalco. La guerra sulle Alpi occidentali rompe un tessuto secolare di relazioni sociali e riportano il conflitto in un territorio che per più di cent’anni ne è stato esente. Nel 1940 in Francia vivono circa 800.000 italiani, impiegati nell’agricoltura, nell’edilizia, nella metallurgia, nelle manifatture, nel commercio, e nella grande maggioranza si tratta di piemontesi e valdostani. Anche se l’espressione «pugnalata alla schiena» entrerà nell’uso comune solo nel dopoguerra, serpeggia la sensazione che l’aggressione a una nazione ormai allo stremo sia un atto moralmente dubbio, la maramaldeggiata di chi «colpisce un uomo morto» e tradisce un Paese «amico».

Ghiaccio e neve ostacolarono l’avanzata degli Alpini in territorio francese, impedendo a muli e artiglieria di seguire la fanteria.
Lo sfollamento
Ma sono soprattutto le ripercussioni economiche e sociali sul campo a determinare in Piemonte una prima scollatura tra regime e opinione pubblica. Allo scoppio della guerrra sulle Alpi occidentali l’estate è prossima e la maggior parte dei pastori ha già portato mandrie e greggi nei pascoli di montagna: sulla realtà della transumanza si abbatte, improvvisa, l’emergenza della «prima linea». Nella zona di frontiera scattano i piani di sfollamento, che sono stati predisposti in vista del conflitto: essi prevedono l’evacuazione degli alpeggi e dei villaggi vicini al fronte e il trasferimento degli abitanti nei centri di assorbimento della pianura, sparsi tra Asti, Alessandria, Vercelli, Savona, Pavia e Genova. Nell’operazione sono coinvolti i centri abitati delle vallate d’accesso ai colli transitabili, il Piccolo San Bernardo, il Moncenisio, il Monginevro, la Maddalena, il Tenda: 11 comuni nel Cuneese nelle valli del Po, Varaita, Maira, Stura, Gesso e Roja, per un totale di 7000 persone; 4 comuni della provincia di Torino, Bardonecchia, Oulx, Clavières, Cesana; 5 in quella di Aosta, Ceresole Reale, Courmayeur, Pré-Saint- Didier, La Thuile, Valgrisanche. La stessa cosa avviene sul versante francese, dove il generale Orly coinvolge, oltre ai comuni di montagna, anche le zone costiere di Mentone e Cap Martin. Si tratta di partenze forzate in condizioni severe, come prevedono le ordinanze prefettizie: «La popolazione», scrive il prefetto di Cuneo, «raccolta in colonne, che in corrispondenza delle zone saranno sei, si dovrà trasferire quasi tutta per via ordinaria [cioè a piedi, N.d.A.] ai posti di sosta prima e ai posti di tappa poi, donde a mezzo ferrovia si trasferirà nelle province di assorbimento».

Colonna di carri L3/33 del 1° Reggimento Fanteria Carrista sulla piana del Moncenisio.
La demoralizzazione
Nelle loro relazioni, le autorità assicurano che l’esodo avviene in un clima di «composta rassegnazione e comprensione», ma non è difficile immaginare il disorientamento e i timori di comunità che devono lasciare il bestiame, le baite e i campi per essere disseminate in case coloniche sparse, dove per mangiare dipendono dalla distribuzione del rancio quotidiano e giorno dopo giorno aspettano di sapere quando potranno rientrare nelle proprie case. L’effetto demoralizzatore di questa massa di montanari che scende le valli mentre i soldati le risalgono è noto attraverso qualche lettera di soldati-alpini sfuggita ai controlli della censura. Scrive il 13 giugno Vincenzo Gonella di Ceva:
Qui a Costigliole ho assistito, cara mamma, a cose commoventi che fanno strappare il cuore, son due giorni che colonne di profughi provenienti dai vicini paesi dei confini arrivano qua a Borgo San Dalmazzo e vengono man mano mandati via sul treno. Mai avevo visto scene così e prego Iddio mai più vederle. Vecchi e vecchie che a stento si trascinano, donne con bambini ancora in fasce chi addormentati chi piangenti, tutte le donne con gli occhi gonfi di pianto: povera gente, dover abbandonare così le proprie case, le bestie, tutto.
Ladri di polli e profittatori
Gli Alpini sono i più sensibili perché reclutati su base territoriale: provenendo dallo stesso ambiente delle popolazioni colpite, s’identificano senza difficoltà con gli sfollati. Lorenzo Giuliano Muglieris, recluta di Peveragno (quasi all’imbocco della vallata che conduce al colle di Tenda, in provincia di Cuneo), riferisce: «Il giorno 11 gli abitanti hanno ricevuto l’ordine di sgomberare, e alcuni soldati di fuori hanno svaligiato i pollai. I vitelli da latte li hanno venduti tutti al di sotto di lire 50, i capretti da 6 a 10 lire l’uno. Anche le poche mucche le hanno vendute a bassissimo prezzo, faceva compassione vedere tutta quella gente ad andarsene». I profittatori delle disgrazie altrui arrivano nei centri di fondovalle, pronti a lucrare sulla malasorte di chi è costretto a sfollare, e acquistano i capi sottocosto: qualcuno, più spregiudicato, propone di comprare i pochi oggetti di valore (orologi da taschino, medaglioni, collanine d’oro, i ricordi di famiglia di una vita) spiegando che «dove andate i soldi contanti possono servire di più»4. Un contadino cuneese, intervistato da Nuto Revelli, testimonia insieme lo sconcerto morale e le ripercussioni economiche: «La guerra contro la Francia, ma che senso, i fratelli di qua e di là, li fanno combattere uno contro l’altro. Qui a Vinadio era ‘zona di operazioni’, siamo dovuti scappare a Bergemoletto, con le bestie, tutto di corsa, il 9 giugno. Poi è avvenuto un po’ di tutto, la guerra è la guerra, ‘venta piela’ [bisogna prenderla, N.d.A.]». Si tratta di un disorientamento di cui i comandi militari sono consapevoli, come emerge da un’altra testimonianza sulla diffidenza degli ufficiali verso i soldati-valligiani abituati all’emigrazione in Francia:
Il mio reparto è la 12a batteria del 4° Reggimento. Il 10 giugno da Mondovì raggiungiamo Rittana e poi Chiapera nell’alta valle Maira. Giudichiamo la guerra contro la Francia una guerra ingiusta, insensata, una vera e propria tragedia. Non per niente il nostro accampamento è sempre circondato dalle sentinelle, hanno paura che i soldati disertino e scappino in Francia. Se la nostra gente dell’arco alpino nel passato si è sfamata, se è riuscita a sopravvivere, deve dire grazie alla Francia.
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