Il flop del Regio Esercito durante la seconda guerra mondiale è stato per decenni oggetto di indagini e di ricostruzioni. Questo breve articolo ne analizza gli aspetti principali, mettendone in luce le debolezze strutturali.
Di Claudio Vercelli.
A metà degli anni Trenta gli uomini alle armi nel Regio Esercito arrivarono a essere 800.000, grazie all’intensificazione delle campagne fasciste di aggressione. Nel 1939 superavano 1.200.000. L’ufficialità cresceva a ruota, con un incremento in proporzione, seguendo tuttavia tre indirizzi di fondo: inflazione di generali, che nel 1940 arrivarono a essere ben 600; promozioni ripetute tra i gradi intermedi e superiori; reclutamento tra i ruoli di complemento di 70.000 ufficiali inferiori (a fronte di 4526 sottotenenti nominati dal 1936 attraverso le accademie militari). Gli squilibri erano evidenti: un elevato numero di «comandanti», una grandissima presenza di subordinati privi di una reale e tangibile preparazione (molti complementari erano richiamati che, nel frattempo, avevano maturato il diritto alla promozione per anzianità), un’ampia fascia, compresa tra i tenenti e i maggiori, con scarsità di personale qualificato. Questo era il Regio Esercito alla vigilia dell’entrata in guerra.

Artiglieria nel Tembien durante la guerra d’Etiopia.
Verso la seconda guerra mondiale.
Il 3 novembre 1939 il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani subentrava nella carica di Capo di Stato maggiore dell’esercito. Nel loro complesso le forze armate non erano in alcun modo pronte a fare fronte agli impegni bellici che si stavano delineando all’orizzonte. La deficienza era divenuta strutturale proprio negli anni delle «guerre fasciste», quando la questione del riarmo tedesco aveva ridisegnato da cima a fondo il problema degli equilibri continentali. Mentre i paesi a tradizione imperiale, come la Francia e la Gran Bretagna, provvedevano a un adeguamento degli arsenali – senza tuttavia che a ciò si accompagnasse una revisione degli standard operativi, come poi nel 1940 il crollo francese avrebbe ampiamente dimostrato – l’Italia era rimasta consegnata a un’evoluzione in sostanza marginale, scontando inoltre il peso dell’impegno assunto in teatri di combattimento lontani dal territorio metropolitano. Più in generale, nella vicenda dell’impreparazione confluivano molte questioni di fondo. Il regime manifestava un inadeguato profilo politico, e di pensiero strategico, rispetto alle dimensioni della sfida che stava per essere lanciata. Non era solo un problema italiano (altri si sarebbero dovuti svegliare in maniera repentina da un lungo letargo), ma il Paese entrava nel novero degli aggressori, in ragione della sua alleanza con la Germania e il Giappone. Ed era quindi chiamato ad adeguarsi a un registro di azione che, invece, non riuscì mai a fare proprio, più che altro subendolo invece che imporlo. Le alleanze non erano più quelle della prima guerra mondiale dove, in un conflitto in sostanza statico, si era pervenuti a una soluzione basata sul logoramento della coalizione rivelatasi più debole nel lungo periodo. Il legame con Berlino e Tokio s’inseriva all’interno di una logica ben diversa, dove in discussione erano le egemonie globali, dentro un disegno dai feroci connotati ideologici. L’Italia era un partner troppo piccolo e debole per riuscire a mantenere il passo. La natura del Regio Esercito derivava anche da questa carenza di comprensione dell’evoluzione del quadro continentale, oltre che da tutto il resto. Problema da imputare, per inciso, tutto al fascismo e al cortocircuito tra una propaganda guerriera e la concreta modestia dei dati di fatto.

Soldati italiani in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale.
L’altra faccia dell’isolamento.
Un secondo aspetto, non a caso, era costituito dalla mancanza di una struttura industriale in grado di soddisfare le esigenze che una politica di riarmo avrebbe comportato. L’impreparazione bellica del Regio Esercito era direttamente correlata anche all’arretratezza tecnologica dell’apparato industriale nazionale, incapace anch’esso di tenere il passo con le dimensioni di grandezza dell’impegno. Nondimeno, la sua mancata mobilitazione ai fini della produzione militare – cosa che invece avevano fatto in precedenza le élite dirigenti liberali – ne amplificò ancor di più le originarie discrasie rispetto alle crescenti esigenze del Paese. Non si comprese, o si finse di non dover comprendere, che il rapporto pressoché assoluto e univoco con la Germania privava l’Italia di una serie di preziose opportunità che le erano invece derivate, durante la Grande Guerra, dagli scambi continuativi con il sistema di rapporti istituito dalla Triplice Intesa. A tale riguardo, il sostegno finanziario angloamericano, il modello d’innovazione tecnologica, ma anche il controllo dei mari che le potenze alleate esercitavano, erano fattori competitivi di cui l’Italia liberale si avvalse durante tutto il 1915-18. Così, invece, non era più dal 1936. Per sopramercato, la pesante capacità delle flotte avversarie di controllare i mari avrebbe condizionato in maniera decisiva i rifornimenti per l’Italia. In generale l’industria, pubblica e privata, optò in un primo tempo per un indirizzo attendista, non intervenendo nei processi decisionali espressi dal regime, ma adattandovisi, a volte con malcelata insoddisfazione. Con l’inizio della guerra, e almeno fino al 1942, aumentò invece il grado di coinvolgimento, tuttavia interferito dai limiti strutturali che si accompagnavano alla produzione (inadeguatezza e vetustà di impianti e macchinari; mancanza di materie prime; dipendenza dalla Germania per una parte delle forniture; scollatura tra capacità di progettazione e tempi di messa in produzione).

Soldati italiani alle prese con la costruzione di strade in Grecia, durante la seconda guerra mondiale.
Sottovalutazioni?
Un terzo elemento fu la scelta operata dal regime, evidentemente consapevole dei limiti di consenso che doveva registrare, di non ricorrere a una mobilitazione generale che chiamasse davvero in causa tutte le risorse disponibili. Si rispecchiava in questa condotta non solo la sottovalutazione della sfida bellica, insieme alla convinzione di poter comunque condizionare sul piano politico molti dei suoi sviluppi, ma anche il timore di non riuscire a gestire i processi sociali che una scelta che avesse chiamato l’intero Paese all’appello avrebbe potuto innescare all’interno. Cosa che restituisce il senso della debolezza di una dittatura che in vent’anni aveva esaurito le sue risorse di credibilità, dopo l’apice di assensi registrato con l’aggressione e l’occupazione dell’Etiopia del 1935- 36. A consegnare un quadro dalle tinte sempre più cupe non era solo il declino nel seguito di adesioni, ma il crescere dell’evidenza che il fascismo con la guerra stava perdendo il ruolo di mediatore tra le componenti sociali che ne costituivano l’ossatura: la crisi del consenso diventava crisi di coesione sociale, investendo di conseguenza tutte le istituzioni, non solo quelle politiche, come sarebbe puntualmente avvenuto con l’8 settembre 1943. In questo quadro di progressivo scollamento dai dati di fatto, come anche di persistente improvvisazione, s’inseriva l’ulteriore fattore dell’impreparazione degli alti comandi, quindi di buona parte della scala gerarchica del Regio Esercito a discendere, rispetto alle esigenze della guerra moderna. Le incongruità strategiche non erano solo un problema dei comandanti del Regio Esercito, richiamando semmai l’impostazione politica data all’insieme della questione militare dall’ascesa del fascismo in poi. La difficoltà di capitalizzare i risultati ottenuti sui campi di battaglia così come dagli scambi con i colleghi degli altri paesi, aspetti in cui invece i tedeschi non difettavano in alcun modo, si coniugava a una scarsa propensione a ottimizzare le poche risorse disponibili. Cosa che richiamava soprattutto l’incapacità dell’istituzione militare di adattarsi alle mutevoli condizioni di condotta, di ambiente, di circostanze che un conflitto armato, tanto più se mondiale, portava con sé.

Carri italiani durante la guerra africana.
Tra l’incudine e il martello.
Le forze armate, quindi, sembravano essersi consegnate a un atteggiamento che rasentava l’autoreferenzialità. La guerra, in un tale stato di cose, fu presto impopolare non solo in sé, in quanto evento di rottura del tempo di pace, ma per l’evidente natura di fenomeno estraneo al comune sentire. Non produceva immedesimazione, e ancor meno entusiasmo, come invece la propaganda si ostinava ad affermare, e oltre a divenire fattore decisivo di erosione e scollamento del consenso residuo nei confronti del fascismo marcò anche la crescente distanza che molta popolazione nutriva verso il ruolo dell’esercito. Se ci si preoccupava per il destino dei propri congiunti sotto le armi, crebbe altrettanto quel sentimento di estraneità che poi divenne diffidenza verso l’istituzione militare in quanto tale. Non era ancora un pensare politico, e tuttavia ne poneva le premesse a venire. Un ultimo elemento di criticità era la relazione con il «camerata germanico», fondata su una crescente sproporzione, non solo militare, ma anche politica. Rispetto all’alleanza del 1915-18, non si trattava più di mediare da posizioni differenti, a volte minoritarie ma comunque basate sulla reciprocità. Con Berlino le cose ben presto si rivelarono nella loro nuda essenza: poche risorse, scarsi aiuti (in cambio di 300.000 italiani mandati a lavorare nelle industrie tedesche), condizioni e decisioni spesso imposte, comunicazioni lacunose e diffidenza crescente. Quando si verificarono operazioni militari in coordinamento, le truppe del Regio Esercito svolsero quasi sempre una funzione ancillare. Il regime si trovò in tal modo stretto tra l’incudine di un’alleanza asimmetrica, che consegnava il Paese a un ruolo drammaticamente subalterno, e il martello di una società che in parte minore accettava, in buona parte subiva, in altra parte ancora andava maturando il rifiuto di un conflitto vissuto soprattutto come incomprensibile.
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