Sulle rive lombarde del Lago Maggiore, l’Eremo di Santa Caterina del Sasso è un mistero architettonico tutto da scoprire, tra panorami mozzafiato e storie curiose.
di Roberto Bamberga
L’eremo di Santa Caterina del Sasso è un luogo veramente particolare. La sua ripida scogliera e le sue costruzioni antiche aggrappate sul lago impreziosiscono – e non di poco – le bellezze presenti tra le due sponde del Lago Maggiore. Il percorso al suo interno poi non può che meravigliare: l’eremo è infatti un susseguirsi di portici a strapiombo sulle acque, di ambienti incasellati l’uno nell’altro, come una serie di scatole cinesi.
Alberto Besozzi: l’eremita
Tutto nacque intorno al Sasso Ballaro, una cascata di roccia che s’immerge nelle acque del lago. Per secoli fu un luogo funesto – ben noto ai marinai della zona – per le temute rocce presenti in profondità, motivo di molti naufragi. A uno di questi scampò Alberto Besozzi, di professione usuraio, che riuscì a mettersi in salvo dalle acque e – ravvedutosi – scelse di rimanere a vivere qui, in una grotta naturale a strapiombo sul lago. Correva l’anno 1170 e come molte volte accadde, anche in questo caso non passò troppo tempo prima che all’eremita venissero attribuiti miracoli. Nel 1195 Besozzi fece cessare la peste che martellava i paesi vicini. In quell’occasione, secondo la tradizione, fu edificato vicino alla sua grotta un sacello simile in tutto e per tutto a quello del Sinai, dove santa Caterina fu deposta dagli angeli.
Morto nel 1205, il corpo del fondatore fu ritrovato solo nel Cinquecento, durante alcuni lavori di restauro. Nel corso di trecento anni, infatti, l’eremo non fece che ingrandirsi e accogliere fedeli, mentre tra le sue mura si alternarono vari ordini religiosi (dai domenicani agli agostiniani).
Le testimonianze del passato
L’eremo è ancora oggi raggiungibile attraverso la via lacustre, approdando con i battelli, o attraverso un nuovissimo ascensore. L’accesso a questo particolare sistema di edifici, tutti raccolti contro la roccia, avviene da un primo portichetto a sette arcate, dove si può godere di una visione panoramica dettagliatissima della sponda piemontese del Lago Maggiore. Dal portico si accede al convento meridionale, dove nel Seicento si trovava anche una foresteria. Qui ha sede la sala del Capitolo, sui cui muri sono conservati alcuni affreschi medievali tra cui spicca una crocifissione raffigurante, tra i personaggi dipinti, anche Gasparis de Rogiatis, priore tra il 1304 e il 1334. L’altro affresco della sala data invece 1439. Qui sant’Eligio (protettore dei veterinari) benedice il ginocchio spezzato di un cavallo. Al suo fianco si staglia la figura di sant’Antonio Abate, vestito esattamente come ci si aspetta da un asceta orientale.
Un gioco architettonico che ha inscatolato in un unico contenitore luoghi un tempo differenti e differenziati.
Il cosiddetto «cortile del torchio» divide questo primo nucleo dal conventino domenicano, ancora oggi caratterizzato da un portico ad archi a sesto acuto, dal sapore assolutamente medievale. Qui, non può che incuriosire una danza macabra dipinta con toni popolareschi, dove scheletri danzanti agguantano principi e religiosi, uomini e donne, esattamente come da iconografia consolidata.
Il portico dei domenicani conduce alla chiesa vera e propria, che si erge con la sua facciata porticata ad archi, tutta addossata al campanile. Questa torre trecentesca, 15 metri di puro romanico, era in realtà il campanile della chiesa di San Nicolao (guarda caso patrono dei naufraghi). Era quindi un corpo staccato dagli altri luoghi di culto qui presenti, oggi riuniti in un solo edificio comunicante.
Un viaggio tra secoli di devozione
La chiesa di San Nicolao è quindi riunita a quella di Santa Caterina mentre la chiesa di Santa Maria Nova alla cappella dei sassi e al sacello. Un gioco che ha inscatolato in un unico contenitore luoghi un tempo differenti e differenziati. Questa particolarità si deve ai lavori che avvennero nel corso del Cinquecento e che donarono, all’attuale luogo di culto, la facciata tuttora visibile, arricchita da stilemi facilmente ascrivibili al rinascimento lombardo.
Il primo ambiente da visitare è la chiesa di San Nicolao, costruita tra il 1300 e il 1320. Colpisce il Cristo Pantocratore in mandorla, facilmente visibile dall’entrata. Sotto di lui gli evangelisti, curiosamente raffigurati con i corpi umani e le teste di animale mentre accanto a loro troneggiano sant’Agostino e san Gregorio Magno dottori della chiesa.
Una decorazione onnipresente accompagna il tragitto attraverso le chiese conduce alla cappella di Alberto Besozzi, dipinta nel corso del Cinquecento probabilmente da Giovanni Pietro Crespi. Successivamente si accede al sacello, cuore di tutto il sistema conventuale.
Il luogo dove si erse il primo nucleo dell’eremo è ormai inscatolato da varie strutture architettoniche. La prima è arricchita da affreschi narranti il trasporto della salma di santa Caterina sul Sinai, mentre più in alto, sulla volta della cupola, si ammira il beato Alberto in preghiera, in una ridipintura di fine Ottocento (non l’unica, purtroppo).
San Carlo Borromeo
L’eremo fu molto amato da san Carlo Borromeo (1538-1584), che si prodigò per mantenere popolare tra le popolazioni del Verbano la figura del fondatore. Forse troppo: alcuni studi datati agli anni Ottanta del Novecento hanno messo in dubbio la leggenda della fondazione. Questa, infatti, potrebbe essere stata inventata da Antonio Giorgio dei Besozzi di Monvalle (1542-1609), guarda caso discendente di Alberto Besozzi. Antonio, in ottimi rapporti con san Carlo Borromeo, s’interessò a far pubblicare, nel 1593 a Milano, la storia del primo secolo di vita dell’eremo, fonte principale della sua leggendaria fondazione.
Lascia un commento