Nardò: pietra leccese e barocco, da riempirsi gli occhi a sazietà: in cattedrale, a San Domenico, nelle tante chiese sparse per il borgo, nella guglia dell’Immacolata e nella splendida piazza Salandra, una delle più belle del Salento.
Di Andrea Carpi
Nardò vuol dire un centro storico di grande fascino, arricchito da chiese barocche di prim’ordine e da musei, come il Museo della Preistoria e quello della Memoria, per non parlare di panorami mozzafiato come quello che regala lo splendido mare di Porto Selvaggio.
Le scoperte archeologiche della baia di Uluzzo testimoniano la presenza dell’uomo già nel paleolitico. Il centro abitato risale al VII secolo a.C. con la presenza di un insediamento messapico.
Dai romani agli Acquaviva
Fu Neriton per i Greci e poi, dopo la conquista del 269 a.C., Neretum per i Romani, collegata al suo porto Emporium Nauna, l’attuale Santa Maria al Bagno. Alla caduta dell’impero romano d’Occidente fu assorbita dall’impero bizantino, con una forte presenza di monaci basiliani.
Tra il 901 e il 924 Nardò fu attaccata e saccheggiata dai Saraceni provenienti dalla Sicilia. Nel 1055 i Normanni conquistarono la città, che in seguito passò sotto gli Svevi. Con la dominazione angioina iniziò anche il feudalesimo: Nardò fu prima sotto i Del Balzo e poi, dal 1497 al 1806, fu feudo degli Acquaviva.
In questo lungo periodo si ricordano la repressione (nel sangue) di una rivolta popolare da parte di Giangirolamo Acquaviva e il terremoto del 1743, che passerà alla storia come terremoto di Nardò, perché proprio qui fece il maggior numero di morti, circa 150.
Il cuore di Nardò: piazza Salandra
Se esiste un luogo, fuori da Lecce, davvero rappresentativo del barocco leccese, quel luogo è piazza Salandra a Nardò.
Tutti gli edifici che prospettano su questo spazio urbano (da sempre cuore della città) sono stati costruiti tra la metà del XVI e la metà del XVIII secolo: la piazza è armonica, uniforme, trasuda barocco ed eleganza e tutto ruota come in una danza intorno alla guglia dell’Immacolata, realizzata per volontà della popolazione dopo il terremoto del 1743.
La guglia, di forma piramidale a base ottagonale e in pietra locale, è alta 19 metri. Diversi gli edifici su cui soffermarsi. Il Sedile è una sobria costruzione rinascimentale, arricchita da elementi rococò nel fastigio superiore, con le statue dei patroni: san Gregorio Armeno al centro e poi san Michele e sant’Antonio da Padova.
La chiesa di San Trifone venne eretta tra il 1720 e il 1723, per chiedere al santo di liberare le campagne dai bruchi. Il palazzo dell’Università, o di Città, fu costruito sulla fine del Cinquecento e poi rifatto dopo il terremoto: è un tardobarocco composto ed elegante, con il bel porticato e la torre dell’orologio.
La cattedrale
A poche decine di metri (via Duomo), la cattedrale di Santa Maria Assunta sorge sul luogo dove fu fondata l’antica chiesa basiliana di Sancta Maria de Nerito. Nel 1080 il conte normanno Goffredo fece costruire una nuova chiesa, in stile romanico.
Nel corso dei secoli l’edificio ha subito diversi rimaneggiamenti e oggi è un coacervo di stili. La facciata è un tentativo, non ben riuscito, di barocchizzare l’impianto romanico. Nell’interno, a tre navate, il colonnato è romanico con lacerti di affreschi sulle colonne (e in piccola parte sulle pareti), la navata di sinistra ha archi acuti, quella di destra a tutto tondo.
Da vedere il fonte battesimale in marmo (una rarità), la splendida cappella del Purgatorio, che ben esemplifica l’horror vacui tipico del barocco, e il Cristo nero, un crocifisso ligneo del XIII secolo a cui è legata un’immancabile leggenda: si dice che i Saraceni provarono a portarlo fuori per dargli fuoco, ma il crocifisso si mise di traverso, Cristo si spezzò un dito e dalla frattura zampillò sangue.
La chiesa di San Domenico
Per vedere la chiesa più affascinante e curiosa di tutto il borgo, bisogna tornare verso piazza Salandra e superare la fontana del Toro, un’opera d’epoca fascista realizzata per celebrare l’arrivo dell’acquedotto pugliese e basata sulla leggenda secondo la quale Nardò venne costruita nel punto in cui un toro, smuovendo la terra con la zampa, trovò l’acqua.
La chiesa di San Domenico lascia sorpresi e interdetti: che cosa vorranno dire tutti quegli elementi – in apparenza ben poco sacri – che appaiono sulla facciata? Putti nudi, personaggi grotteschi e piuttosto pagani, teste barbute, cariatidi e ghirlande affollano la parte inferiore, mentre la parte superiore appare più sobria e lineare.
Non ci sono fonti che spieghino la volontà della committenza o la scelte dell’autore: una delle chiavi di lettura più accreditate è che nella parte bassa si trovi l’affannarsi della vita e il rincorerre falsi miti e superstizioni, mentre sopra ci siano la forza e la chiarezza della dottrina di san Domenico e della ricerca di Cristo. Tra gli altari, è da vedere quello della Madonna del rosario con i quindici misteri, opera di Antonio D’Orlando.
Qualche giro in centro
In uno degli angoli del centro storico, il castello – dalla struttura quadrangolare e con quattro torri a mandorla sui vertici – è opera di Giulio Antonio Acquaviva e risale al Quattrocento, segno del passaggio dalla dominazione angioina a quella aragonese. Subì la trasformazione maggiore tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando la famiglia Personè ne fece una lussuosa residenza: a quei lavori si deve, in particolare, la realizzazione della curiosa facciata eclettica che ancora si può ammirare.
Per tornare a immergersi nel barocco, niente di meglio che visitare qualche altra chiesa, tra le molte presenti in centro storico: quella di San Giuseppe, per esempio, con la sua facciata a tamburo e l’interno a pianta ottagonale, oppure la chiesa della Purità, che alterna linee concave e linee convesse e custodisce uno splendido altare maggiore in marmo bianco.
Da qui, via San Giovanni conduce fino alla chiesa e al convento di Sant’Antonio da Padova, costruiti nel 1497 dopo la cacciata degli ebrei a opera di Belisario Acquaviva (la chiesa ha preso il posto della sinagoga). Oggi il convento ospita un imperdibile Museo della Preistoria, che racconta in maniera esauriente ed efficace l’uomo preistorico e gli straordinari ritrovamenti della baia di Ulizio.
Otto grotte, nelle quali sono stati rinvenuti reperti di Neanderthal e di Sapiens, che per un certo periodo hanno convissuto e si sono mischiati (noi stessi, ancora oggi, abbiamo una percentuale di DNA neanderthaliano).
A breve distanza dal museo, ai margini del centro storico, vale la pena vedere anche l’Osanna: un monumento barocco (è del 1603), formato da otto colonne che ne circondano una centrale, che sostiene una cupola.
L’aspetto è orientaleggiante, l’interpretazione più diffusa è che la colonna centrale (più antica) rappresenti un vecchio luogo di culto pagano, forse un menhir, sconfitto e ingabbiato dalla fede cristiana.
Nei dintorni di Nardò
Nardò non si limita al borgo, ma possiede anche un lungo tratto di costa davvero piacevole. Il Parco Naturale di Porto Selvaggio e Palude del Capitano si estende su oltre mille ettari, con circa 7 chilometri di costa rocciosa e frastagliata.
Nella parte settentrionale, la palude del Capitano è uno specchio d’acqua alimentato da acque dolci sorgive e da acque salmastre, dove vivono numerose specie di animali acquatici e rarissime specie vegetali. Da vedere anche le torri costiere e le splendide ville di Cenate, barocche, moresche o liberty: alcune, come villa del Vescovo, villa Saetta o villa Personè valgono la gita.
La località balneare più nota è Santa Maria al Bagno, che tra il 1944 e il 1946 divenne luogo di sosta degli ebrei scampati ai campi di sterminio nazisti e diretti verso il nascente Stato di Israele.
Migliaia di persone affluirono in Salento, bene accolte dalla popolazione locale, che mostrò solidarietà e sostegno a questi profughi sconosciuti (per questo Nardò ha avuto la Medaglia d’Oro al Valor Civile).
A raccontare questa bellissima storia c’è oggi il Museo della Memoria e dell’Accoglienza, che ospita tra le altre cose i murales di Zivi Miller, anch’egli profugo e reduce dai campi di concentramento.
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