Viboldone è un lembo di civiltà medievale ritagliato tra grandi vie di comunicazione moderne; un gruppetto di poche case dai muri in mattoni e i tetti in cotto, addossate alla chiesa romanica e cinte da alberi, dietro cui si allargano i campi.
Di Andrea Accorsi.
Tuttora luogo di clausura, preghiera e accoglienza, il borgo di Viboldone sorto intorno all’abbazia del Millecento è uno dei più importanti e meglio conservati insediamenti medievali della regione: a distanza di tanti secoli, mantiene intatto l’impianto gotico e rapisce gli occhi del visitatore con la sorprendente decorazione trecentesca al suo interno di scuola giottesca, la brillantezza dei suoi colori e la perfezione delle proporzioni.
Oggi l’abbazia ospita una comunità di monache benedettine di clausura, rinomate per la loro attività di editoria religiosa e teologica e per l’opera di restauro di codici e libri antichi, compresi i manoscritti vinciani raccolti nel Codice Atlantico. La comunità risiede in quello che un tempo era il palazzo del priore, mentre la cascina del monastero è tuttora utilizzata per le attività agricole.
L’abbazia e il suo borgo
Il borgo agricolo di Viboldone nacque con l’abbazia, fondata nel 1176 e completata solo nel 1348 dagli umiliati, un ordine formato da monaci, monache e laici che conducevano vita di preghiera e di lavoro; in particolare, fabbricavano panni di lana e coltivavano i campi introducendo innovativi sistemi di lavorazione, oltre a essere ottimi amministratori delle finanze, anche pubbliche. Dopo la soppressione degli umiliati ad opera di Carlo Borromeo, l’abbazia passò ai benedettini olivetani, poi soppressi dal governo austriaco. Dopo oltre un secolo e mezzo di abbandono, si insediò l’attuale comunità di benedettine, che trae origine dalle monache che nel 1936 si erano raccolte nel Lazio attorno a madre Margherita Maria Marchi. Al momento di riconoscere ufficialmente la numerosa comunità, il cardinale Giovanni Battista Montini (il futuro papa Paolo VI) ritenne opportuno costruire un edificio più adatto ad ospitarla: Viboldone ritrovò così la sua originaria destinazione di borgo monastico.
Dall’età napoleonica in poi, il municipio di Viboldone aggregò e perse in diverse fasi numerosi comuni vicini (Civesio, Rancate, Sesto Ulteriano, Videserto e ancora Zivido, Pedriano, San Donato e la stessa San Giuliano), arrivando a contare in alcuni periodi quasi tremila abitanti; oggi, come frazione di San Giuliano Milanese, non arriva al centinaio.
La chiesa
Inizialmente dedicata a san Pietro, la chiesa di Viboldone si presenta con una facciata a capanna in cotto profilato, bifore a vento e portale in marmo bianco sormontato da una lunetta con statue della Madonna con i santi Giovanni da Meda e Ambrogio; ai lati, due nicchie racchiudono le statue dei santi Pietro e Paolo. Il campanile che si innalza sopra il tiburio ha cornici in cotto e archetti alla base delle bifore e delle trifore sormontate da oculi. Il portone della chiesa, decorato con grandi chiodi e costoloni lignei, risale all’epoca della costruzione della facciata. Un trionfo di luci e colori ci investe non appena oltrepassata la soglia.
Fin dall’ingresso si possono abbracciare con lo sguardo le volte affrescate che si succedono una dopo l’altra; le tre navate di cinque campate ciascuna hanno la chiave di volta, al centro delle crociere, circondata da spicchi racchiusi in un cerchio con i colori dell’arcobaleno. Le maestranze degli affreschi erano essenzialmente lombarde, con influssi di arte toscana ed emiliana. Nella prima volta affrescata (quella della quarta campata della navata centrale) sono raffigurate quattro storie della vita di Cristo – annunciazione, adorazione dei Magi, presentazione al tempio e battesimo – e, al di sotto, la crocifissione, la deposizione dalla croce e l’eucarestia; il ciclo delle storie, 14 in tutto, si conclude nella parete sinistra con la Pentecoste. Sulla parete frontale del tiburio, la Madonna in Maestà e Santi (1349).
Di fronte, nel Giudizio Universale di Giusto de’ Menabuoi, datato al 1350-1370, il Cristo giudice circondato dagli angeli – alcuni dei quali portano gli strumenti della passione, altri con le trombe dell’apocalisse, mentre due arrotolano i cieli mostrando le mura d’oro e pietre preziose della nuova Gerusalemme – divide i benedetti (alla sua destra) dai dannati (alla sinistra), con Satana intento a divorare e… evacuare alcuni di loro; il modello è il Giudizio che Giotto affrescò per Enrico Scrovegni nella cappella di Santa Maria della Carità a Padova. Successive decorazioni furono realizzate in epoche successive, fino alla fine del Seicento.
Al primo piano dell’edificio di fianco alla chiesa si affaccia sul piazzale la sala della musica, rara testimonianza iconografica, a grandezza reale, degli strumenti musicali in uso tra la fine del XV secolo e l’inizio di quello seguente. Nulla o quasi resta dell’antico monastero delle benedettine dei santi Pietro e Paolo.
Le cascine
Lungo la via principale del borgo si affaccia una casa agricola conosciuta come la «càa di paròl» (la casa delle parole) per una scritta in latino sotto la grondaia, a metà della costruzione, che tradotta riporta: «Abbattute le abitazioni fatiscenti, queste del podere furono dignitosamente innalzate dalle fondamenta nell’anno della recuperata salvezza MCMXXIX Littorio VII [1929] a riparo dal calore, dalla polvere, dalle veglie, dalle fatiche, affinché il lavoro dei campi intervallato dal riposo, generi un apprezzamento più vivo e frutti più abbondanti».
Nel 1857 Cesare Cantù, descrivendo Viboldone nella sua Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, ancora prima del monastero invitava i lettori a visitare la «magnifica cascina» che sorgeva lì vicino, citandone la «vastissima casera» e il bel «caseggiato civile». In effetti, l’abbazia conta due cascine, una delle quali, la «grande», ha un aspetto piuttosto insolito e imponente, aperta com’è al piano terra da un portico a sette archi ribassati retti da colonne. Un’altra cascina di cui è documentata l’appartenenza all’abbazia fin dagli inizi del Duecento è Montone, a sud-est di Viboldone, che ha mantenuto intatte meglio di altre le caratteristiche originarie: un’architettura semplice ma raffinata e curata nei dettagli decorativi. A ovest di Montone, al di là dell’autostrada del Sole e della tangenziale ovest, cascina Castelletto deve il nome alla presenza di un palazzetto padronale fortificato.
Dalle marcite all’acqua… marcia
Vicino a Viboldone, come pure all’abbazia di Chiaravalle, scorre la Vettabbia, a conferma della tendenza degli umiliati a insediarsi su un corso d’acqua. Fin dall’Alto Medioevo, il canale navigabile della Vettabbia è stato per secoli una delle vie di comunicazione più importanti di Milano: collegava la città con il Po tramite il Lambro e quindi con Ravenna, capitale dell’impero romano, e Comacchio, da dove risalivano la corrente i barconi carichi di sale. Oltre a questo corso d’acqua, gli umiliati disponevano dei particolari terreni a sud della città, la cui impermeabilità fa affluire in superficie le acque della falda; queste mantengono anche in inverno una temperatura prossima ai 10°. Opportunamente incanalate e sfruttate, permettevano fino a 10 tagli di erba all’anno contro i 2-3 degli altri prati. Altro elemento caratteristico del paesaggio nella bassa Lombardia erano le marcite, poi scomparse a causa della continua manutenzione di cui necessitavano, ma anche dell’inquinamento delle acque di scolo della metropoli. La Vettabbia di oggi è tutt’altra cosa: inalveata in un corso diverso e più stretto, è ridotta a semplice canale di spurgo. L’apertura del depuratore di Nosedo (2003) ha notevolmente migliorato la qualità delle sue acque; il recupero dell’ampia campagna circostante si è completato con la piantumazione di alberi e la creazione di lunghe piste ciclabili e percorsi pedonali.
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