La notte del 13 agosto 1961 la DDR chiude la frontiera che marca il confine tra il settore Est ed Ovest di Berlino. Viene così creata un non-luogo, una frontiera diventata uno dei simboli centrali della storia europea novecentesca e, in quanto tale, consacrata a vero e proprio locus della narrazione cinematografica.
Di Carlo Ugolotti.
Come ha scelto di rappresentare il cinema occidentale il Muro di Berlino e la divisione delle due Germanie? Il caso che si vuole qua affrontare, tra storia, cinema e politica, è la resa cinematografica del Muro in un genere cinematografico particolare: lo spy-movie. Berlino divisa diventa infatti una terra di frontiera, senza regole, legge o ordine, novello Far West popolato non da cow-boy ma da agenti segreti delle fazioni in conflitto.
Mica solo Bond.
Il muro di Berlino viene infatti edificato negli anni del boom degli spy-movie, a seguito del successo planetario dell’esordio di James Bond – il quale, curiosamente prediligendo mete più esotiche non vi farà tappa fino a Octopussy nel 1983 – e il film di spionaggio di ambiente berlinese diventa quasi un sottogenere che domina gli anni Sessanta. Spesso queste produzioni si aprono sulle immagini del filo spinato del muro (si veda La spia che venne dal freddo, 1965 e Funeral in Berlin, 1966) facendo così della barriera e di altri luoghi celebri come il Checkpoint Charlie dei veri e propri monumenti della Guerra Fredda, immediatamente riconoscibili dal pubblico esattamente come la Monument Valley del western e i cancelli dei campi di concentramento delle narrazioni sulla Shoah.
Come rappresentare la differenza?
La rappresentazione delle due zone del Muro di Berlino rispetta la propaganda politica che il blocco occidentale faceva della Germania divisa: il settore occidentale capitalista ricco di beni di consumo, attivamente coinvolto per l’abbattimento del muro, opposto a quello orientale, rassegnato, compiacente con i sovietici e controllato costantemente dalle forze di sicurezza della DDR o dell’URSS, dominato da privazioni e dalle macerie. All’intraprendenza del berlinese occidentale è contrapposta l’indolenza lamentosa dell’orientale. Come ha segnalato la storica Camilla Poesio, la rappresentazione della Germania Est è dominata da un’«ottica etologica, con un misto di compassione e derisione» e, a tal proposito, conviene citare anche Barbara Grüning, che ha notato come vi sia un’assenza di narrazioni riguardo le esperienze quotidiane della Berlino orientale. La scelta di incorniciare le vicende della capitale tedesca divisa sotto il genere esotico-avventuroso della spy-story si può considerare una scelta politica di rappresentazione: il settore orientale come un spazio di illeciti, bugie e violenza privo di una dimensione di vita quotidiana e delle sue regole del vivere civile, ambedue appannaggio esclusivo della zona occidentale.
Se prendiamo un film di Alfred Hitchcock ambientato in questo contesto, Il sipario strappato (1966), nella celeberrima scena della lotta nel capanno in campagna, si può notare che le armi usate per uccidere una spia sono proprio gli oggetti quotidiani: un forno e un coltello da cucina. Ai berlinesi dell’Est è sottratta la dimensione quotidiana in nome della Guerra Fredda. Come li definì un articolo dell’Unità del 1989, i tedeschi orientali erano «cittadini del nulla».
Forti caratterizzazioni.
Ma non c’è solo il Muro di Berlino: la città è dominata da spie che si ritrovano nei bar in cui è severamente vietato anche solo parlare ad alta voce per paura che chiunque possa origliare una conversazione e anche prima di uscire con una ragazza è necessario verificare la sua identità per timore che sia un’agente segreto – quale infatti si rivela essere (Funeral in Berlin).
In queste narrazioni, le spie occidentali devono aiutare i cittadini tedeschi ad andare oltre il muro (si veda ancora il film di Hitchcock in cui la fuga dall’Est è proprio il motore della suspance del finale) e smantellare le reti di spie dell’Unione Sovietica in un mondo senza regole e senza pietà. Spesso le spie sovietiche sono i classici villain ma, anche in virtù del disgelo seguito ad eventi quali la crisi di Cuba, esistono racconti in cui le strategie occidentali non sono troppo dissimili da quelle dei corrispettivi avversari (si veda ancora La spia che venne dal freddo e Sull’orlo della paura, 1968). Al centro delle vicende si intersecano anche vicende di stretta attualità della Germania dell’epoca come il processo di de-nazificazione (The Quiller memorandum, 1966 e Un, due, tre, 1961) e la questione atomica (Il sipario strappato).
L’assurdità di una capitale europea divisa nel suo cuore e dominata da spie, così come rappresentata dal cinema occidentale, non sfugge all’occhio del cinema stesso che realizza versioni ironiche dei film di spie: dallo humor nero di Un, due, tre di Billy Wilder alla comicità più popolare di Totò e Peppino divisi a Berlino (1961) che unisce la parodie dei film di spie a quella del film drammatico I magliari di Francesco Rosi del 1959, pellicola drammatica sui lavoratori italiani in Germania.
La costruzione dell’identità del nemico.
Fare della vita nella Germania Est una terra di nessuno dominata da sotterfugi, tradimenti e mancanza di regole o leggi significava negare alla DDR uno statuto di nazione civile al pari delle altre. Il muro di Berlino, come la Grande muraglia, avrebbe simboleggiato il limite stabilito tra civiltà e barbarie. Nella costruzione di questo paradigma, il cinema ha giocato una carta vincente che è rimasta nella memoria pubblica e cinematografica degli anni a venire: anche dopo il crollo del muro, la rappresentazione cinematografica ha continuato a usare Berlino come un perfetto setting di storie di spie (The innocent, 1993) e in Atomica Bionda (2017) un personaggio esplicita il paradigma sotteso al genere dagli anni Sessanta in poi: “Berlin is the Wild West”.
Solo un film molto recente, Il ponte delle spie (2015), prova a sovvertire lo stereotipo, pur rimanendo nei canoni del genere: il film si apre non sul muro ma con il ponte di Brooklyn – si tenga in mente il titolo, in realtà riferito al ponte Glienicke –, ricordandoci come anche negli Stati Uniti vi fosse stata una guerra di spie con tanto di «caccia alle streghe». Il pubblico vede attraverso gli occhi del protagonista Tom Hanks, arrivato a Berlino, prima il muro in costruzione, poi la barbara fucilazione di tedeschi che provano ad attraversare la barriera e infine, tornato a New York, la facilità con cui dei giovani americani scavalcano giocando i muri delle residenze americane; questo film non può non ricordare allo spettatore del 2020 il muro tra Messico e Stati Uniti ricollegando l’assurdità della Germania divisa alle barriere ancora esistenti nel mondo globale del Nuovo Millennio.
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