Il 17 giugno 1953: la rivolta a Berlino Est vide gli operai in piazza contro un governo comunista. La DDR richiese l’aiuto del Cremlino e i carri sovietici tornarono sui selciati di Berlino, spegnendo le dimostrazioni nel sangue. Fu la prima incrinatura dell’impero dell’est.
Di Donatella Sasso.
Nel quadro degli stati rientrati sotto l’influenza sovietica alla fine della seconda guerra mondiale, in seguito alle decisioni prese a Jalta nel febbraio del 1945, la Germania Orientale rivestiva un ruolo del tutto particolare. L’area occupata dalle truppe sovietiche rimase a lungo senza una destinazione precisa. Secondo le intenzioni di Mosca, l’intera Germania, e questo era l’obiettivo minimale ma necessario, doveva diventare uno Stato neutrale, una democrazia borghese in cui ai comunisti sarebbe stata concessa la partecipazione alla gestione del potere. Con l’irrigidirsi del distacco fra Est e Ovest, incrementato dalla «dottrina Truman» del 1947 che istituì il programma per la ricostruzione dell’Europa, più noto come «piano Marshall», letto dall’Unione Sovietica quale tentativo di egemonia politica ed economica da parte degli Stati Uniti, anche l’ipotesi di una Germania neutrale venne a tramontare.
La nascita della DDR
L’Unione Sovietica reagì con durezza agli aiuti americani, che in prima battuta erano rivolti anche ai paesi della parte centrorientale dell’Europa, e vi contrappose la formazione del Cominform, l’Ufficio di Informazione dei partiti comunisti, organismo volto al controllo delle comunicazioni e alla diffusione del modello politico e culturale sovietico. Due anni dopo fu istituito il Comecon, il Consiglio di mutua assistenza economica, organizzazione commerciale che coinvolgeva gli stati del blocco e che, nel corso degli anni, fu allargato alla Jugoslavia e a paesi extraeuropei come il Vietnam e Cuba, oltre che a paesi considerati cooperanti, fra cui Iraq, Messico e Nicaragua. In questo nuovo clima di contrapposizione radicale, che assumerà la suggestiva definizione di Guerra Fredda, anche la Germania divenne area di spartizione e contesa. Così, il 7 ottobre 1949, poche settimane dopo la nomina di Konrad Adenauer a cancelliere della Germania Occidentale, fu fondata fondata la DDR, Deutsche Demokratische Republik, la Repubblica Democratica Tedesca. Stalin, che aveva dato il suo consenso il 27 settembre a una delegazione formata anche dai futuri presidente e segretario generale della nascitura repubblica, Wilhelm Pieck e Walter Ulbricht, manteneva le sue perplessità. Era soprattutto preoccupato per l’influenza capitalista e «imperialista» che sarebbe giunta dalla Germania Occidentale, ma, alla fine, diede il via libera alla costituzione di uno Stato dominato da un partito unico, nel caso specifico la SED, Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, Partito Socialista Unitario della Germania, che stabilì precisi obiettivi economici, politici, culturali. In sintesi, si orchestrò nel Paese una sorta di stalinizzazione tardiva, operata attraverso la costruzione del culto del leader supremo, l’istruzione di numerosi processi «dimostrativi» contro politici accusati di essere agenti occidentali, un’azione capillare di collettivizzazione dell’agricoltura e l’avvio di un piano economico quinquennale che mirava al conseguimento di risultati molto rigidi.
Esilio e malcontento
Nonostante la diffusione di un’attenta propaganda volta a esaltare il nuovo corso politico della DDR, molti cittadini iniziarono a mal sopportare la crescente pressione fiscale e l’aumento dei prezzi dovuti a una crisi economica sempre più evidente. L’esortazione ad aumentare la produttività non incontrò la sperata e disinteressata collaborazione dei lavoratori, tanto che nell’autunno del 1952 i membri della commissione di controllo del partito furono invitati a scovare, con mezzi più o meni leciti, i responsabili delle difficoltà economiche del Paese. I licenziamenti, per motivi futili e costruiti ad arte, non si contarono fra gli operai, i contadini delle cooperative agricole e i dipendenti dei segretariati circondariali della SED. Anche dopo la morte di Stalin proseguirono i processi dimostrativi e furono ventilati un aumento delle ore di lavoro (gli obiettivi produttivi obbligatori) pari al 10% e una pari riduzione dello stipendio. Il malcontento cresceva di giorno in giorno e in molti scelsero la via dell’esilio volontario: nel corso del 1952 abbandonarono la DDR circa 182.000 cittadini, e nei primi quattro mesi del 1953 se n’erano andati già in 120.000. Era questa la situazione generale quando, sabato 13 giugno, tra i 500 e i 600 lavoratori dei cantieri dell’ospedale di Friedrichshain, un quartiere di Berlino, si ritrovarono sul lago Müggelsee per una gita aziendale. Durante il pranzo in trattoria le chiacchiere spensierate da tempo libero si trasformarono in un dibattito politico spontaneo, al termine del quale fu decretato uno sciopero per il lunedì seguente.
Lo sciopero
Il 15 giugno i lavoratori sospesero il lavoro e, quando la polizia popolare circondò il cantiere, entrarono in sciopero anche gli operai edili impegnati nella realizzazione dell’imponente Stalinallee di Berlino, spingendosi in corteo verso i loro colleghi. Grazie alle radio occidentali, la notizia si diffuse in fretta in tutta la DDR e il 17 giugno si preparò una manifestazione molto più imponente e organizzata. In mattinata molte fabbriche si svuotarono, i lavoratori sfilarono per le vie di Berlino Mitte e, insieme a diversi passanti che si unirono a loro, si diressero verso la sede del governo della DDR. In breve, alle rivendicazioni economiche, scandite ad alta voce, si aggiunsero richieste di democrazia, unità e libertà: un canovaccio che si reitererà con quasi monotona ripetitività in altri paesi del blocco sovietico e in momenti successivi. Il corteo, del tutto pacifico, all’inizio fu tenuto d’occhio dai carri armati sovietici, di stanza nella DDR, e verso le 12 un ufficiale sovietico ordinò alla polizia popolare di attaccare. All’inizio gli agenti usarono i manganelli e i manifestanti reagirono con un lancio di pietre, ma subito dopo si sentirono i primi spari, lo sferragliare dei carri armati che avanzavano come impazziti sulle strade di Berlino e le urla dei feriti. Alla fine della giornata si contarono decine di morti, saranno almeno cinquanta in tutta la DDR, dove si moltiplicheranno analoghe manifestazioni; nelle settimane successive saranno arrestate tra le 8000 e le 10.000 persone; 20 saranno fucilate subito dopo la dichiarazione dello stato di emergenza. Nei giorni dei disordini, che si protrassero fino a luglio, a Berlino Ovest gli alleati scelsero di non intervenire: non fu una scelta occasionale, ma il primo passo di una strategia di lungo periodo che avrebbe relegato tutte le rivolte nell’area d’influenza sovietica a questioni interne. Per i dirigenti della SED gli eventi del 17 giugno rappresentarono un vero choc; dirà uno di loro: «Era una pugnalata al cuore – con quanto amore avevamo costruito il partito – rendersi conto che i nostri compagni ci abbandonavano, che i giovani ci abbandonavano! » (Mählert 2009, p. 64). Anche se ufficialmente la rivolta fu definita una «provocazione fascista», era chiaro a tutti, anche ai più fanatici, che era sorta dalla spontanea iniziativa popolare, all’interno di un diffuso scontento. Lo scarto fra le intenzioni di chi credeva, forse in maniera ingenua, al progetto di un socialismo realizzato e l’esistenza quotidiana di chi viveva sulla propria pelle le contraddizioni del regime si manifestò per la prima volta in uno degli stati del blocco orientale in tutta la sua virulenta drammaticità.
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