Aldo Moro, giurista cattolico, dirigente democristiano e statista italiano è stato uno dei personaggi più importanti della Prima Repubblica. Ricordato soprattutto per la tragica fine, questo profilo biografico vuole invece porre l’accento sulle attività e le capacità politiche, che hanno segnato lo storia d’Italia nel XX secolo.
di Gianni Oliva.
La Famiglia
Aldo Moro è nato il 23 settembre 1916 a Maglie, un grosso borgo del Salento, in Puglia. È il secondo dei cinque figli di Renato e Fida Stinchi. Entrambi i genitori lavorano nel settore dell’educazione: il padre, maestro, poi direttore didattico, dal 1909 è ispettore ministeriale: un tipico e severo funzionario meridionale, con un fortissimo senso del dovere e del servizio per lo Stato. Sul piano delle attitudini comportamentali, Renato Moro è un uomo all’antica, figlio del suo tempo, ma sul piano pedagogico è vicino al movimento riformatore che guarda alla scuola come elemento di promozione umana e civile e che nel 1911 ottiene con la legge Daneo-Creparo la statalizzazione dell’insegnamento elementare (sino ad allora i maestri dipendevano dai comuni, i quali non sempre investivano nell’istruzione le risorse necessarie). La madre, proveniente da una famiglia della borghesia agraria calabrese, è a sua volta maestra e condivide con il marito una visione politica liberale: a essa associa una cultura religiosa priva d’intransigenze ed estranea ai formalismi, tutta tesa a vivere la fede come un’esperienza di responsabilità morale individuale, coltivata all’interno della propria coscienza. Nel 1923 la famiglia si trasferisce a Taranto, una città che vive una stagione di espansione legata all’Arsenale e alla Marina Militare, e qui il giovane Aldo frequenta il ginnasio e il liceo «Archita». «Giovane riservato, anche se niente affatto asociale, anzi non privo di una vivace vena ironica e uno spiccato senso dell’amicizia», egli si rivela studente brillante che «nella rigorosa applicazione dell’intelligenza al percorso scolastico vede una via di promozione sociale»: dotato di una straordinaria memoria, egli vive tuttavia un momento di stress psicofisico durante la preparazione dell’esame di maturità, superato a pieni voti, ma da cui gli deriva «il caratteristico ciuffo di capelli bianchi sopra la fronte che segnerà per sempre la sua figura» (Guido Formigoni, Aldo Moro, Il Mulino, Bologna 2016, p. 19).
Tra la FUCI e Azione Cattolica
Nel 1934, il trasferimento a Bari e l’iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza. Bari è una città vivace: l’istituzione dell’ateneo pochi anni prima, la decisione di Mussolini di avviare nel 1930 la Fiera del Levante, la costruzione del moderno lungomare sprovincializzano il centro pugliese e lo rilanciano nel quadro della politica mediterranea e orientale perseguita con decisione (e velleità) dal fascismo. Qui Aldo Moro compie le esperienze fondamentali per la sua formazione. Già negli anni del liceo si è avvicinato all’Azione Cattolica, l’organizzazione dei laici cattolici, riformata da papa Pio XI e capillarmente presente nelle parrocchie di tutta Italia. Il movimento (il cui sviluppo è legato alla scelta della Chiesa di ritirarsi sul piano religioso per gestire il rapporto di incontro-scontro con il fascismo) promuove una religiosità consapevole: il cattolico non deve rinchiudersi nelle pratiche di pietà tradizionale, ma vivere nella propria interiorità i principi del Cristianesimo, farne un’esperienza coscienziale in grado di guidarlo come uomo e come cittadino. A Bari Aldo Moro s’iscrive alla Federazione Universitaria Cattolici Italiani (FUCI), l’articolazione dell’Azione Cattolica il cui uomo di riferimento è Giovan Battista Montini, il futuro papa Paolo VI. Ambito di formazione della classe dirigente cattolica che guiderà la Democrazia Cristiana, la FUCI combina l’intransigenza della fede al dialogo con le culture moderne: per inserire il credente nella nascente società industriale di massa, non basta l’osservanza delle pratiche del culto, ma serve un Cristianesimo maturo e convinto, che sappia cogliere e interloquire con gli aspetti laici proposti dal mondo del Novecento. La fede cattolica come moralità, ereditata dalla madre (che morirà ancor giovane nel 1939), si sposa così a un impegno verso la realtà circostante e resterà un tratto caratterizzante di Aldo Moro, come intellettuale e come politico. Della FUCI Moro diventa dirigente a livello pugliese e nel 1939, dopo la laurea in diritto penale, presidente nazionale: lascerà la carica nel 1941 perché chiamato alle armi e a succedergli sarà Giulio Andreotti. Mentre scorrono gli anni di guerra (in cui Moro presta servizio come ufficiale dell’aviazione, senza peraltro essere impegnato al fronte), matura la carriera universitaria, con l’incarico all’ateneo di Bari di filosofia del diritto, cattedra che terrà dal 1940 sino al 1963.
L’esordio sulla scena politica nazionale
Le prospettive sono quelle di un giovane brillante della piccola borghesia colta meridionale: la docenza, le pubblicazioni, l’impegno nel sociale. Ma la conclusione della guerra e la sfida per la ricostruzione del Paese aprono prospettive nuove e segnano i destini individuali. Nel giugno 1946, Aldo Moro è eletto deputato all’Assemblea Costituente nella circoscrizione Bari-Foggia e inizia l’attività politica nazionale. I dirigenti della Democrazia Cristiana ne valorizzano la competenza tecnico-giuridica e lo inseriscono nella «Commissione dei 75», l’organismo ristretto che elabora e propone il testo costituzionale: nei mesi successivi egli rivela le sue qualità distintive, «l’intelligenza acuta e pensosa» (come la definisce Giuseppe Dossetti, l’uomo politico a cui si avvicina in quegli anni), uno stile portato alla mediazione e alla paziente ricerca di soluzioni condivise, la cautela di fronte a disegni riformatori che pretendono di mutare la realtà in modo troppo rapido, la capacità di coniugare la fermezza nei principi con la duttilità dell’azione politica. Eletto parlamentare nel 1948, riconfermato nel 1953 e nel 1958, dopo lo scioglimento del gruppo dossettiano egli anima la corrente di Iniziativa Democratica insieme ad Amintore Fanfani, Mariano Rumor, Emilio Colombo, Paolo Emilio Taviani, Benigno Zaccagnini: è la seconda generazione di dirigenti democristiani, quelli che raccolgono l’eredità di De Gasperi e guidano il partito nella complessa fase di passaggio dall’Italia rurale dell’immediato dopoguerra all’Italia industriale del miracolo economico.
L’apertura ai socialisti e la nascita del centrosinistra
Con le elezioni del 1953 sfuma l’ipotesi a cui De Gasperi ha legato la continuità del progetto «centrista», un premio di maggioranza che permetta alla Democrazia Cristiana di governare con stabilità: il meccanismo elettorale (quella che le opposizioni hanno bollato come «legge truffa») prevede che il partito o i partiti apparentati che ottengano il 50% dei voti più uno abbiano il 65% dei seggi alla Camera, ma per 57.000 voti (pari allo 0,2%) il premio non scatta. Per l’Italia inizia un periodo contraddittorio e difficile: mentre gli effetti del miracolo economico segnano una decisa modernizzazione del Paese e i cittadini accedono a nuovi beni di consumo (l’auto, gli elettrodomestici, la televisione, il telefono), la politica stenta a rinnovare i propri equilibri. Le maggioranze di centro che hanno retto l’esecutivo dal 1948 non hanno più i numeri per governare in maniera stabile: soprattutto, non hanno le risorse intellettuali per interpretare i bisogni di una società in crescita tumultuosa, dove milioni di persone si trasferiscono dalle aree rurali del Sud per concentrarsi in quelle industriali nel Nord-Ovest, e dove i costumi e le abitudini di vita cambiano a ritmi sino ad allora sconosciuti. Aldo Moro è tra i dirigenti democristiani più coerenti nel sostenere la necessità di un’«apertura a sinistra» e a guardare come possibile partner di maggioranza al Partito Socialista (che a sua volta rompe il patto di unità d’azione con il Partito Comunista e abbandona i riferimenti alla vecchia tradizione rivoluzionaria): si tratta di un percorso lento, in cui vanno affrontate le resistenze politiche interne alla Democrazia Cristiana, le diffidenze ideologiche della Santa Sede e ancor più le rigidità dell’amministrazione americana, preoccupata per la stabilità del fianco meridionale dell’Alleanza Atlantica.
Moro si muove con la pazienza e la gradualità dimostrate sin dai primi interventi alla Costituente, ma anche con la determinazione di chi ritiene che per governare il grande sviluppo industriale in corso nel Paese e ottimizzare la congiuntura economica favorevole occorra una politica di programmazione dell’intervento dello Stato: correggere gli squilibri tra aree di arretratezza e aree di progresso, agire nel campo dell’istruzione, della sanità e delle «pubbliche utilità», associare all’aumento dei consumi privati quello dei consumi pubblici, realizzare una politica di «convergenze parallele» con la sinistra non comunista. Il percorso di allargamento della maggioranza (favorito da mutate condizioni esterne, come l’avvento al soglio pontificio di Giovanni XXIII e l’elezione di John Fitzgerald Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti) porta a una svolta degli equilibri politici nel febbraio 1962, con la nascita del primo governo di centrosinistra, guidato da Fanfani e comprendente DC, PRI, PSDI con l’appoggio esterno del PSI; meno di due anni dopo, nel novembre 1963, i socialisti entrano a far parte direttamente del governo, e il nuovo esecutivo è guidato da Aldo Moro con vicepresidente Pietro Nenni, il leader socialista.
Il riformismo senza riforme
L’esperienza del centrosinistra è segnata da limiti evidenti: da un lato, la nuova formula di governo nasce in un’atmosfera di speranza e di progetti politici di ampio respiro (alcuni dei quali saranno realizzati, come l’istituzione della scuola media unica e obbligatoria, o la nazionalizzazione dell’energia elettrica); dall’altro, essa coalizza contro di sé le resistenze di vasti settori dell’apparato dello Stato e dei potentati economici e sconta le diffidenze alimentate dall’anticomunismo che ha cementato i governi degli anni precedenti. In particolare, suscita reazioni la proposta di riforma tributaria, che porta imprenditori e gruppi finanziari al blocco degli investimenti e al trasferimento di capitali all’estero per il timore di una loro tassazione; a funzionare da elemento frenante vi è inoltre la pressione di oscuri tentativi reazionari emersi nel 1964 con il «piano Solo», che inducono i socialisti a mettere la sordina alle richieste di riforma di fronte al rischio di destabilizzazione antidemocratica. Esaurito lo slancio iniziale, la stagione del centrosinistra modernizzatore finisce così per arenarsi nell’immobilismo legislativo e i successivi governi Moro (che durano sino al 1968) gestiscono una situazione faticosa di «riformismo senza riforme»: di fatto, il leader democristiano si dimostra più acuto nei processi di ridefinizione della politica che nella concreta azione di governo, dove le prudenze hanno il sopravvento sulle intuizioni.
Il compromesso storico
Il 1968-69, con le contestazioni studentesche nelle università e l’«autunno caldo» nelle fabbriche, segnano una fase nuova nella storia nazionale: la rabbia operaia per la crescente automazione e per l’intensificarsi dei ritmi di lavoro alla catena di montaggio, la stretta sulla disciplina imposta dai vertici aziendali, i disagi sociali legati alla concentrazione di masse di lavoratori nelle periferie urbane si saldano con le rivendicazioni dei giovani studenti, stretti in un modello d’istruzione antiquato e sordo ai nuovi bisogni di partecipazione. Si tratta di un fenomeno diffuso in molti paesi europei, che in Italia acquista tratti particolarmente acuti e che (a differenza di quanto avviene all’estero) si prolunga sino alla metà del decennio successivo: è il malessere di un Paese cresciuto economicamente in modo tanto rapido quanto squilibrato e a cui la politica non ha saputo dare le risposte attese e le riforme necessarie (in questo limite di fondo vanno cercate le radici del terrorismo degli anni Settanta, da quello di destra espresso nella «strategia della tensione» a quello di sinistra delle Brigate Rosse e degli altri gruppi eversivi). Moro è tra i dirigenti nazionali più lucidi nel cogliere il significato di rottura dei movimenti di piazza e nell’affermare la necessità di «una effettiva e attenta considerazione» delle proteste in atto nel Paese: questo significa in primo luogo (come egli afferma intervenendo nel novembre 1968 al consiglio nazionale del suo partito)«riconoscere il fatto nuovo e irreversibile della partecipazione, cioè della presenza attiva e consapevole nella società civile di ogni persona in modo autonomo».
Mentre una parte della Democrazia Cristiana (guidata da Mariano Rumor e Flaminio Piccoli) punta a proseguire sulla strada del centrosinistra moderato, Moro ritiene invece si debba affrontare la situazione adottando una «strategia dell’attenzione» nei confronti delle opposizioni e aprendo il dialogo con il Partito Comunista e con i sindacati. Il quadro internazionale, con l’allentamento delle tensioni tra le due superpotenze e il passaggio dalla Guerra Fredda alla «coesistenza pacifica», sembra legittimare questo percorso: «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai», egli dice. «Siamo davvero ad una svolta nella storia e dobbiamo preparare bene i binari, altrimenti saremo travolti.»
Il ragionamento è coerente: lo spostamento a sinistra in atto nella società implica un cambio di rotta da parte del centrosinistra e la ricerca di equilibri più avanzati, perché, se si vogliono contenere gli effetti politici delle turbolenze sociali, occorre misurarsi con il partito che, per capacità organizzative e consenso elettorale, rappresenta la parte più significativa del mondo del lavoro. La «strategia dell’attenzione» sostenuta da Aldo Moro si sviluppa nell’atmosfera inquieta degli anni Settanta, dove le bombe di piazza Fontana, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese, le stragi di piazza Della Loggia e dell’Italicus testimoniano la presenza di forze che vogliono rispondere alle lotte con la destabilizzazione delle istituzioni democratiche, mentre all’opposto l’affermarsi di una sinistra extraparlamentare, l’escalation di violenza delle manifestazioni di piazza e la nascita del terrorismo rosso segnano l’emergenza di uno scontro sempre più radicalizzato.
La prospettiva di Moro incontra opposizione a Washington, dove i presidenti Nixon e Ford e il segretario di Stato Henry Kissinger temono che la strategia dell’attenzione sia il preludio di una nuova maggioranza aperta ai comunisti. Spiegherà Kissinger a Moro nel 1975:
Qualsiasi cosa lei mi dica non c’è alcuna possibilità che noi possiamo essere persuasi a partecipare a un’alleanza con governi che includano dei comunisti che sarebbero contro il comunismo.
E alle osservazioni di Moro, che si chiede perché ci debbano essere queste barriere quando invece «il presidente americano dialoga con i leader sovietici», Ford replica pronto: «Il fatto che io stringa la mano a Breznev non significa certo che io lo voglia come mio vicepresidente» (Roberto Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992, Carocci, Roma 2006, p. 186).
Enrico Berlinguer
Nonostante gli ostacoli della Casa Bianca, in Italia l’indirizzo di fondo indicato da Aldo Moro si rivela via via più credibile, anche perché s’incontra con le trasformazioni in atto nel Partito Comunista. Nell’autunno del 1973, dopo il golpe cileno e la drammatica conclusione dell’esperienza socialista del governo Allende, il segretario comunista Enrico Berlinguer scrive infatti sulle colonne di Rinascita tre lunghi articoli in cui propone «un nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano» (Rinascita, 5 ottobre 1973): partendo dalla constatazione dei vincoli del sistema internazionale bipolare e dalla conseguente impossibilità politica di un’alternativa di sinistra in Italia, Berlinguer sostiene la necessità di uno sforzo di solidarietà nazionale che affronti la stabilizzazione dell’economia e risponda alle minacce eversive con il consolidamento del sistema democratico. Per questo il rapporto con la Democrazia Cristiana deve spostarsi dal terreno dell’opposizione a quello del confronto costruttivo, aprendo il dialogo con le componenti di quel partito più disponibili alle aperture a sinistra. In quest’ottica, Moro diventa l’interlocutore privilegiato e tra i due leader inizia uno scambio dinamico e intenso destinato a durare nel tempo e a preparare le condizioni per un coinvolgimento del PCI nella maggioranza. Per Berlinguer si tratta di ottenere la legittimazione del proprio partito e di affermarne le potenzialità trasformatrici; per Moro, di «contenere» il PCI stesso e, attraverso l’accordo, di attenuare le spinte che vengono dalle lotte dei lavoratori; per entrambi, di affrontare l’emergenza politico-sociale del Paese. I tempi sono lunghi per le resistenze ideologiche che in entrambi gli schieramenti derivano da tradizioni identitarie contrapposte. Ma nel 1977-78 le condizioni maturano: negli Stati Uniti la nuova amministrazione democratica del presidente Carter appare più incline di quelle che l’hanno preceduta ad «avere fiducia nella capacità della DC di cooptare il PCI mantenendolo in una posizione subalterna e ridefinisce la propria politica verso l’Italia in base al principio della non interferenza e non indifferenza» (Roberto Gualtieri, op. cit., p. 195) ; gli effetti della crisi economica, iniziata verso la metà degli anni Settanta, richiedono d’altra parte misure di austerità difficilmente praticabili senza il coinvolgimento del PCI e dei sindacati; la sfida del terrorismo e l’inattesa esplosione di rabbia giovanile espressa dal movimento del 1977, a loro volta, spingono verso la prospettiva della solidarietà nazionale.
Nelle prime settimane del 1978 è Aldo Moro a pilotare il percorso verso l’ingresso dei comunisti nella maggioranza, dispiegando tutte le proprie capacità di mediazione politica. Il 5 gennaio 1978, incontrando Berlinguer, gli spiega le ragioni per le quali è possibile il coinvolgimento dei comunisti della maggioranza, ma non nel governo (gli equilibri interni nella DC e nel Paese, le prudenze americane, ma anche il rischio di dirottare il malcontento giovanile sulle forze extraparlamentari); il 28 febbraio, in un impegnativo discorso ai gruppi parlamentari democristiani, circoscrive la portata dell’intesa con il PCI alla necessità di gestire l’emergenza, ma ne sostiene anche l’inevitabilità, determinando il successo della mozione favorevole alla nuova maggioranza, che raccoglie 215 voti favorevoli contro i 130 contrari. Il 16 marzo 1978 il nuovo governo, guidato da Giulio Andreotti, si presenta alla Camera per la fiducia: si tratta di un monocolore DC, sostenuto da una maggioranza di emergenza, di cui per la prima volta dal 1947 fa parte il Partito Comunista. I comunisti non sono soddisfatti della composizione dell’esecutivo, nel quale non è stato inserito nessun tecnico di area, e si riservano di decidere il proprio atteggiamento parlamentare in una riunione di direzione dopo il discorso di Andreotti: il giorno del suo rapimento Aldo Moro si reca alla Camera proprio per consolidare politicamente la nuova maggioranza che tanto ha contribuito a creare.
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