Intervista a Gianni Oliva, autore di Torino anni di piombo e Il caso Moro (Edizioni del Capricorno, 2018).
di Roberto Bamberga
Complicità
«Non ho mai tirato molotov, non ho mai usato spranghe, non mi sono mai scontrato con la polizia, ma ho sperato anch’io che le BR ce la facessero a sequestrare l’Avvocato». Questa è una delle frasi forti che caratterizzano la postfazione del suo libro Torino anni di piombo. Partiamo da qui: centinaia di persone oltre a lei avrebbero potuto sottoscrivere una simile dichiarazione, oggi abbastanza scioccante. Come era percepito veramente il terrorismo da universitari e operai?
In quegli anni ero studente universitario e poi insegnante. Non ero più un ragazzino, avevo tra i venti e i venticinque anni. Ricordo benissimo che nei primi tempi le Brigate Rosse hanno suscitato molta simpatia, perché facevano esattamente quello che si scandiva nei cortei. Frasi come «attento poliziotto è arrivata la compagna P38» erano gridate durante le manifestazioni; quando qualcuno impugnò veramente le pistole trovò intorno a sé un clima favorevole, una certa forma di solidarietà che non deve stupire.
Anzi, le BR trovarono una solidarietà più generica nel mondo studentesco e una più complice in quello operaio, basti pensare che i nomi di quadri o capiturno colpiti dalle loro pallottole arrivarono alle orecchie dei terroristi da indicazioni interne alle fabbriche. Gli operai della FIAT Mirafiori legati alle Brigate Rosse si contarono a decine: erano attivisti, non semplici informatori.
Politicamente parlando, in un’atmosfera un po’ malata quale quella di quei giorni, qualcuno veramente pensava che la rivoluzione fosse alle porte e di conseguenza le prime azioni delle BR, a quanti la pensassero in quel modo, non potevano che fare piacere.
Si trattava quindi di un nesso più profondo che la semplice condivisione di una base culturale comune.
Io parlerei di complicità intellettuale e morale insieme. E l’ho scritto in questo testo [Torino anni di piombo, N.d.R]. Noi studiamo la Storia per fare in modo che certe cose non ricapitino, questo secondo me è il senso della Storia. Ma cosa non dovrebbe ricapitare? Non tanto i forni crematori o i gulag, quello che più mi preoccupa è una certa compiacenza riscontrabile nell’opinione pubblica dell’epoca in tutti quei casi, la credibilità data da popoli e comunità a personaggi rivelatisi poi criminali. Questo è ciò che non dovrebbe mai più accadere.
Secondo me i conti con le Brigate Rosse e con tutto il terrorismo italiano degli anni Settanta sono stati fatti sul piano giudiziario, su quello fattuale, ma non sul piano morale. Collusioni, complicità, silenzi e indulgenze: quante volte ci siamo sentiti dire, in quegli anni, che le BR erano poi, in fondo, «compagni che sbagliano»? Oppure quante altre volte ci è risuonato nelle orecchie lo slogan «né con le BR né con lo Stato»?
Su questo campo vale la pena parlare degli anni di piombo, proprio per sottolineare le fragilità e la lentezza con cui si è preso coscienza che i brigatisti non erano altro che criminali, gente che in nome del proletariato uccise al novanta per cento proletari. In questo senso trovo inverosimile come alcuni atenei invitino gli ex brigatisti a parlare, perché a mio giudizio sono e restano dei criminali. Non basta essere in buona fede per stare dalle parte giusta.
Vale la pena ricordare come prese avvio anche un clima di forte violenza verbale, per nulla diverso – tra l’altro – da quello a cui assistiamo oggi. È importante sottolinearlo perché quindici o vent’anni fa non esisteva più, era sparito dal dibattito politico.
Queste «zone grigie» dell’opinione pubblica degli anni Settanta, questa complicità intellettuale è qualcosa che spesso manca nelle ricostruzioni, dove più che altro si sottolinea la paura respirata nelle città italiane.
Sono passati quarant’anni e per come viene trattato l’argomento a scuola – quando viene trattato – è già tanto sapere cosa siano state le Brigate Rosse. Proprio per questo, anche in seguito ad alcune reazioni che i libri hanno suscitato, stiamo lavorando con alcuni esponenti del mondo scolastico torinese per invitare nelle scuole le vittime del terrorismo. Abbiamo bisogno che le persone gambizzate dalle Brigate Rosse o da Prima Linea possano finalmente prendere la parola e raccontare ai ragazzi cosa sia stato il terrorismo.
Un po’ come si è fatto, fino a qualche anno fa, con i deportati nei campi di concentramento o con i partigiani. L’argomento poi suscita l’interesse dei più giovani; l’ho notato durante le presentazioni, dove il pubblico era molto eterogeneo.
Il clima del terrorismo
Tornando alla postfazione del libro, un’altra frase che evidenzierei è «il problema è ricostruire il semplicismo di quegli anni, la facilità con cui si è varcata la soglia tra la protesta e il crimine. Chi pensa ai terroristi come a personaggi pervenuti alla scelta delle armi dopo un percorso lacerante di approfondimento e di valutazione sbaglia». Visto con gli occhi di oggi il passaggio tra protesta e crimine sembra un gradino enorme ma lei, per gli anni Settanta, fa intendere invece il contrario, delinea un rapporto più stretto. Cosa vuol dire? La società italiana di allora era più violenta? O semplicemente è cambiata la nostra percezione o la nostra «abitudine» alla violenza?
Il clima politico era molto diverso. L’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta era un Paese in forte mutazione genetica: nel giro di dieci o undici anni dalla tradizionale realtà contadina sorse una nuova nazione industriale, contraddistinta da grandissimi consumi. Di conseguenza la morale e i costumi cambiarono profondamente, altrettanto velocemente. Noi che quegli anni li abbiamo vissuti eravamo diversi, anche solo rispetto ai nostri fratelli maggiori.
Nel 1968 avevo sedici anni ed ero al liceo Gioberti di Torino, dove si contavano quattrocento studenti. Metà di questi, io compreso, erano militanti di qualche organizzazione: Potere Operaio e poi Lotta Continua; furono anni di grande fermento, di cambiamenti radicali nei costumi e di liberazione sessuale. Quello che la mia generazione si aspettava era che la politica assecondasse l’onda progressista che ormai invadeva e animava il Paese, ma questo – per varie ragioni – non avvenne. La bomba di piazza Fontana fu un punto di non ritorno: fu percepita come un attacco, da parte di alcuni apparati dello Stato, contro il cambiamento, un atto di forza contro lo sviluppo democratico.
In più, con le lotte del 1969 salì alla ribalta una classe operaia nuova, innervata da immigrati del Sud al lavoro sulle catena di montaggio, stretta tra lo squallore della vita di fabbrica e le difficoltà nel trovare un alloggio decente; poveri che nelle nostre città vivevano a stretto contatto con i ricchi e i loro status symbol. Il risultato fu una forte frizione sociale. Dall’incrocio di questi due filoni, quello politico e quello sociale, sorse la mescola da cui si generò il terrorismo rosso. Ma non solo. Vale la pena ricordare come prese avvio anche un clima di forte violenza verbale, per nulla diverso – tra l’altro – da quello a cui assistiamo oggi. È importante sottolinearlo perché quindici o vent’anni fa non esisteva più, era sparito dal dibattito politico.
Eppure gli anni Settanta furono comunque anni di trasformazione e innovazione.
Certamente. La realtà continuò a evolvere anche durante la stagione degli Anni di piombo. Nel 1978, anno del sequestro Moro, la fabbrica era già cambiata rispetto alla fine degli anni Sessanta; il mondo e la società anche. Nella scuola, per fare un esempio, nel 1968 avevamo già le classi miste, ma durante l’intervallo i maschi stavano da una parte della classe e le femmine dall’altra. Nel 1977 questo non esisteva più. La cattedra sulla pedana alta, simbolo dell’autoritarismo contro cui si lottò nel 1968, nel 1977 era già un ricordo.
La macelleria che accadde a Torino io a quei tempi non l’avevo capita, non mi ero reso conto avesse raggiunto tali proporzioni.
Torino durante gli anni di piombo è stata più volte descritta come una città grigia, cupa e impaurita. Sottoscrive?
Onestamente no. Perlomeno, io non la percepivo così. Certo, molto faceva l’abitudine: ci eravamo abituati ai controlli, specialmente girando per Torino la sera tardi o di notte, c’era parecchia polizia. Soprattutto in centro, dove erano tanti, tantissimi i cortei. Ma eravamo abituati anche a questo, quindi ci pareva normale. Quello che si percepiva, in certi momenti, era la rabbia. Quella sì, era tangibile. Durante i cortei, negli slogan che si scandivano, passavano messaggi di grande violenza. Quando mi è capitato di lavorare a questi libri mi sono reso conto della distanza tra ciò che è accaduto e quella che era la mia percezione. La macelleria che accadde a Torino io a quei tempi non l’avevo capita, non mi ero reso conto avesse raggiunto tali proporzioni.
Con gli occhi di oggi
Domanda banale ma obbligata: si può abbozzare un confronto tra il terrorismo degli anni Settanta e quello di oggi? Mi incuriosiscono, in questo senso, le reazioni della società civile alla violenza terroristica. Confrontando i titoli dei giornali di allora con quelli di oggi si ha il sospetto che quella in cui viviamo noi sia una società più paranoica di quanto non sia stata quella degli anni Settanta. È un’impressione erronea?
La differenza di fondo, oltre al fatto che questo è un terrorismo internazionale e quello un terrorismo interno, è che il terrorismo di oggi mira ad abbattere tutta la struttura della società occidentale. Allora si trattava di distruggere il potere all’interno della società, cambiare chi dominava la società: era un conflitto politico e ideologico. Per quanto riguarda la società civile sicuramente oggi è riscontrabile una psicosi assente nelle reazioni della società civile degli anni Settanta. Quello che è accaduto in piazza San Carlo a Torino non sarebbe accaduto allora, perché questa paranoia è figlia del tipo di attentati portati avanti dal terrorismo islamico, ben diversi da quelli caratterizzanti il terrorismo rosso. Le BR uccidevano un obiettivo, realizzavano omicidi ad personam; non si sarebbero mai messi a sparare contro una piazza inerme. Certo, di vittime casuali ce ne furono anche allora, ma si trattava di morti accidentali, come quelle che capitano durante i «regolamenti di conti» tra gang mafiose. Il terrorismo islamico è completamente diverso da questo punto di vista.
Un’analogia però è l’atteggiamento della gente. Anche il terrorismo islamico ha dei complici, le sue fila si sono ingrossate di sottoproletari frustrati e di fior di laureati (nelle università occidentali) volati in Siria per combattere sotto la bandiera dello Stato islamico. Quel sentimento che negli anni Settanta aveva portato a simpatizzare per le BR in certe aree si ripropone nei confronti di chi va a combattere contro l’Occidente. Di nuovo si mette in moto il medesimo meccanismo. Allora fu la società civile a schierarsi, isolando i terroristi e chiudendo ogni spazio a posizioni intermedie: o con noi o con i terroristi. Oggi è più difficile che questo possa accadere, considerando il terreno internazionale su cui il terrorismo è dislocato.
Torniamo agli anni di piombo per un’ultima domanda. Fin da subito, a partire dal momento delle prime indagini e dai processi, il terrorismo degli anni Settanta è stato «arricchito» da dietrologie. Alcune, molto longeve, sono ripetute ancora oggi, in un tam tam durato quarant’anni. Come si pone lei davanti a questo fenomeno?
Le dietrologie nascono spesso dalla incapacità di capire e servono ad accontentare i nostri schemi, le nostre aspettative. Ma nulla di più: con le dietrologie non si fa avanzare la ricerca. Ci sono stati in quegli anni degli schemi mentali per cui il potere era considerato subdolo, capace di organizzare tutto nel dettaglio entrando nella coscienza e nella vita delle persone. Le dietrologie sugli anni di piombo si generarono da quelle convinzioni.
Ma la Storia è fatta molto più di smagliature che di grandi progetti geometrici. Prendiamo per esempio l’omicidio Moro, una miniera per le dietrologie. Chi di fatto uccise Moro furono le Brigate Rosse e non altri. Che poi qualcuno sia stato contento che il sequestro fosse finito in quel modo questo è probabile, che qualcun’altro a rapimento avvenuto ne abbia incoraggiato l’esito anche, ma non che la CIA abbia armato le BR o tantomeno che vi fu lo zampino dei servizi italiani. Anche gli aspetti più misteriosi (come il ritrovamento del memoriale Moro nel covo in via Montenevoso, a Milano, dodici anni dopo la perquisizione fatta dalle forze dell’ordine) sono più imputabili all’inefficienza che a un lucido progetto oscuro.
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