Da internet alle tv tematiche, dalle pubblicazioni locali a quelle scientifiche: come sbrogliare la matassa delle informazioni storiche? Lo chiediamo a Giuseppe Sergi, professore di Storia medievale all’Università di Torino.
Di Roberto Bamberga
Facciamo ordine
Storico locale, divulgatore e storico accademico. Volendo teorizzare il rapporto tra queste tre figure in una struttura ideale verrebbe da pensare che lo storico locale risponde a una «esigenza dal basso» (quella di un popolo o di un territorio che vuole fissare le proprie identità e tradizioni in una narrazione) e lavori per farla emergere. Lo storico accademico, nell’immaginario comune, si pone invece come auctoritas in grado di valutare ciò che può avere o meno dignità di essere studiato e impostare i temi di una ricerca scientifica, mentre il divulgatore svolge una sorta di mediazione tra la ricerca scientifica e la curiosità o gli interessi dei lettori più generalisti. È uno schema superato, sempre che sia stato mai attuale?
Lo schema e la tripartizione rispecchiano gran parte della produzione storiografica attuale, anche se ovviamente esiste qualche pubblicazione ibrida. È interessante notare che nella lingua inglese il verbo «divulgare» non esiste: i vocabolari suggeriscono «spread» (cioè spiegare) oppure addirittura «publish» (pubblicare), come se pubblicare fosse di per sé raggiungere un pubblico più largo rispetto agli specialisti.
Lo storico locale ha di solito due difetti: scrive per amore delle sue terre (e il coinvolgimento emotivo non è mai buona cosa nella ricostruzione storica) e non è attrezzato – per strumenti e metodologia – come chi pratica la storia per professione. In nessuna altra scienza (neppure in altre scienze sociali come la sociologia e l’antropologia) si pensa che chiunque possa scrivere con competenza senza una formazione di base. Anche per la storia vale l’affermazione del virologo Roberto Burioni, che per le scienze «dure» afferma che «la scienza non può essere democratica».
Il difetto della tripartizione presente nella domanda è che si riferisce ai produttori di opere storiche, e non ai lettori: invece anche i lettori, i destinatari, sono da distinguere. Per chi si divulga? Per gli abitanti dei luoghi trattati o per presentare una regione a chi non la conosce? Per chi vuole saperne di più su narrazioni ascoltate nell’infanzia o per turisti? Per lettori forti – anche se non specialisti – o per chi ha alle spalle solo una base scolastica?
Quando la «narrazione amatoriale» della storia locale può rappresentare una fonte per lo storico? Quali sono i consigli che si sente di poter dare a chi desiderasse svolgere una ricerca storica sul proprio territorio?
Le opere di storia locale sono preziose soprattutto per la conoscenza dei luoghi: è in quelle pagine che gli storici possono trovare suggerimenti toponomastici a cui non è facile arrivare per altra via. Non devono farsi scoraggiare dalle molte ingenuità che possono incontrare e cercare ciò che serve. Il consiglio che si può dare allo storico amatoriale è quello di procurarsi una bibliografia aggiornata sui processi generali che attraversano ogni regione. Quell’aggiornamento può cambiare anche profondamente alcune interpretazioni di storia locale.
Negli anni Novanta Luigi Bertotti, un farmacista che si dilettava da anni di storia locale, pur se in età avanzata decise di scegliersi come interlocutori i medievisti dell’Università di Torino e, soprattutto, attinse largamente alla biblioteca del Dipartimento di studi storici e scoprì, oserei dire «con gioia», quali modifiche poteva apportare a una sua ricerca in corso sui conti di Valperga. Aveva tempo, la sua attività amatoriale non gli imponeva scadenze, e così scoprì che cosa era feudale e che cosa non lo era, quali beni erano curtensi e quali no, si convinse che alcuni sviluppi non erano peculiarità del Canavese: e così produsse un libro molto bello, aggiornato ma non per questo meno affascinante per i suoi lettori locali.
Contenuti per un pubblico più ampio
Anche agli storici specialisti accade di fare divulgazione. In quel caso quanto pesa l’approccio metodologico o l’appartenenza dello studioso a una «scuola» (sempre che ancora ve ne siano) in un’opera di largo consumo?
Le «scuole» – che ci sono eccome, anche se i risultati scientifici tendono a convergere e sono raramente contrapposti – incidono poco sulla divulgazione. Il rimprovero che mi sento di fare a colleghi che divulgano è che passano dalla prosa «di spiegazione» a quella «di narrazione», allontanando troppo i lettori da una quota di «presa diretta» con i risultati della ricerca e rinunciando a combattere gli stereotipi sul passato. L’accademico che divulga spesso è ipercorrettivo rispetto alla sua attività normale, scrive come immagina si debba scrivere per un pubblico largo. Forse ciò avviene per la pressione degli editori, ma anche per decisioni spontanee.
Mi occupo da decenni – prima come condirettore e ora come coordinatore di redazione – del mensile «L’Indice dei libri del mese»: le recensioni meno riuscite sono quelle degli accademici che pensano, data la sede, di scrivere «da giornalisti». Il risultato è migliore quando continuano a fare il loro mestiere limitandosi a eliminare le componenti iniziatiche della loro prosa.
Anche per la storia vale l’affermazione del virologo Roberto Burioni, che per le scienze «dure» afferma che «la scienza non può essere democratica».
La storia vende: in campo editoriale è argomento risaputo. Collane e riviste dedicate al grande pubblico riempiono gli scaffali di edicole e librerie. Quello che però, a prima vista, può sembrare un grande flusso di informazioni spesso si rivela essere o una costante riproposizione del medesimo argomento (penso ai nazisti e ai faraoni, per dirne due) o un appiattimento al gossip storico. Condivide questa valutazione oppure ritiene che anche questo genere di pubblicazioni possano comunque servire a mantenere i riflettori accesi sulla grande storia da parte di un pubblico il più ampio possibile, anche al prezzo di una semplificazione?
Condivido senz’altro questa valutazione. Tutta la cultura – ma la storia in particolare – deve a mio avviso fornire strumenti e non solo soddisfazioni. Rispetto ai «riflettori accesi» su conoscenze di quart’ordine preferisco i riflettori spenti: le informazioni sbagliate fanno più danni dell’ignoranza. È meglio «svegliarsi» di fronte a conoscenze che sorprendono piuttosto che continuare a cullarsi in illusioni del sapere che derivano da frammenti di conoscenza acquisiti nelle scuole elementari. Per esempio le manifestazioni in costume, accettabili come puro divertimento, non fanno compiere nessun progresso culturale e hanno spesso il difetto di rendere più indelebili gli errori.
Tra tv e internet
Storia e televisione: le sottoporrei due casi particolari e a volte, parrebbe, antitetici: Rai Storia e History Channel. Un suo giudizio.
History channel è sopravvalutata. Anni fa accettai l’incarico di rivedere la traduzione italiana di una puntata sulla «vita in un castello medievale»: mi trovai di fronte a tutti, proprio tutti i luoghi comuni sul Medioevo, finii con il riscrivere il testo. In Rai Storia c’è di tutto: ogni tanto credo ci sia la volontà di far sentire già «a casa» lo spettatore, di gratificarlo con informazioni che, almeno sommariamente, sente come già familiari. Ma non mancano prodotti di qualità.
Purtroppo i miei studenti meno bravi erano proprio quelli che avevano amato la storia a scuola, prima dell’università. Perché avevano amato una storia-racconto, fatta di date, battaglie, trattati e personaggi isolati: una storia lontana dalla grande storia aggiornata e che insegna anche poco.
Internet è un vastissimo archivio di materiali: da una parte si ha l’impressione di una totale perdita di ogni principio di auctoritas, visionando il mare magnum di testi e video su cui è possibile inciampare. Dall’altro invece rappresenta, agli occhi dei divulgatori, una grande risorsa. Archivi aperti di riviste specializzate e video o interviste a storici autorevoli a portata di mano. Certo, aumentando il numero di informazioni aumenta anche il pericolo di scivoloni. Come cambia il lavoro dello storico nell’epoca dell’open source?
Sul tema dell’auctoritas insisteva, giustamente, Umberto Eco. Chi legge libri sa che i loro contenuti sono stati sottoposti al vaglio di case editrici come Einaudi e Laterza (per fare solo due esempi fra tanti), chi accede a internet è in un certo senso disarmato, deve fidarsi solo di se stesso. E non ci si deve guardare soltanto da siti scopertamente dilettanteschi, ideologici e spesso deliranti: Wikipedia per il Medioevo mette in circolo informazioni vecchie e per lo più sbagliate, e non si può chiedere agli storici di professione di investire tempo per metterci mano. Curiosamente il divulgatore che vuole ricorrere alla comodità di internet deve essere molto più colto e preparato del divulgatore di un tempo, solo così può evitare gli scivoloni.
Discorso differente è quello dell’open source, che è in parte il presente e certamente il futuro della ricerca: qui si riconoscono le sedi accreditate, non è diverso dal lavorare sul cartaceo.
«Il percorso è arduo»
Uso pubblico della storia: la storia continua, come da sempre, a essere trascinata per il bavero sul tavolo dell’attualità e della discussione politica. Se nello scorso decennio i temi erano quelli delle foibe e dei «manuali scolastici di sinistra» oggi il trend porta direttamente alla caduta dell’Impero romano e alle invasioni barbariche. Tuttavia, seppur chiamato in causa, il ruolo dello storico nell’agone mediatico pare relegato in secondo piano, mentre il centro della scena è dedicato a opinionisti (politici e non) o a divulgatori non accademici. Qual è la sua posizione su un argomento così spinoso?
La storia fatta di opinioni, e non di prove, è nociva. Avviene di assistere a dibattiti in cui dicono la loro uno storico di livello mondiale e un uomo di spettacolo, con un conduttore che alla fine sentenzia «abbiamo ascoltato due opinioni, il pubblico può farsi una sua idea». Quando avviene – e avviene – si tocca veramente il fondo. In particolare è pericoloso il frequente ricorso a «identità inventate», non importa se di nazioni o di minoranze. Propongo un esempio banale ma efficace: nessuno che debba sottoporsi a un’operazione chirurgica si metterebbe nelle mani di un dilettante.
Alla luce di quanto detto in precedenza quale futuro si aspetta per la narrazione storica?
Come detto prima, preferisco la spiegazione alla narrazione. Purtroppo i miei studenti meno bravi erano proprio quelli che avevano amato la storia a scuola, prima dell’università. Perché avevano amato una storia-racconto, fatta di date, battaglie, trattati e personaggi isolati: una storia lontana dalla grande storia aggiornata e che insegna anche poco. Tuttavia mi rendo conto che una quota di narrazione è necessaria perché aggancia la curiosità e prepara la strada all’interpretazione. Il percorso è arduo.
Una volta affermato il ruolo della storia come «scienza sociale del passato» bisognerà che si lasci agli storici professionali il compito di fare ricerca e si formi una categoria di divulgatori che professionalizzino la loro attività: a loro non si chiede di entrare negli archivi e di schedare fonti, ma di leggere opere aggiornate e di scrivere in modo chiaro e accessibile. E, inoltre, di non assecondare soltanto gusti che nel pubblico si suppone già ci siano, ma di far leva sulla meraviglia rispetto a scoperte che sorprendono: chi non è contento di apprendere che le corazze romane non avevano forma anatomica, che il vassallo non si inginocchiava davanti a colui che lo investiva di un feudo o che l’economia medievale non si fondava sul baratto?
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