Quella dei «barabba» è una pagina a tinte fosche tutta torinese quella che riguarda, un fenomeno malavitoso diffuso a Torino tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento.
Di Daniela Schembri Volpe
Barabba è un termine che qualcuno si sarà ancora sentito dire nella sua infanzia da qualche nonna o vecchia zia. Si tratta di un fenomeno di devianza che si contrapponeva in quel preciso momento storico al lavoro dei cosiddetti santi sociali, personaggi come Don Bosco o Juliette Colbert, che investivano il loro tempo per ovviare a un welfare neanche accennato dalle istituzioni, che potesse garantire benessere e sicurezza ai cittadini e riportare all’onestà ragazzi e ragazze avviati su una pericolosa china, come i «barabba». Il costante flusso migratorio iniziato nei primi anni dell’Ottocento verso la città aveva attratto lavoratori dalle zone rurali, i quali non sempre trovavano un’occupazione vivendo di espedienti e nell’emarginazione della società. Ed ecco che l’unico mezzo di sostentamento diventava ingrossare le fila della malavita. I malavitosi erano giovani lavoratori stagionali, operai, sbandati o miserabili che sovente riempivano le pagine della cronaca nera con le loro numerose vicende di microcriminalità.
A contrastare le loro nefandezze vi erano due organi, la Polizia governativa e i Carabinieri, sebbene con ambiti differenti d’intervento. Il 7 giugno 1898 è una data che riporta a un grave fatto di sangue avvenuto nella Birreria Viennese, un locale a quel tempo molto frequentato, al civico 54 di via XX Settembre angolo via Santa Teresa. Da notare che il 1898 fu l’anno in cui a Torino si tenne l’Esposizione Universale e che l’ordine pubblico sarebbe dovuto essere garantito al massimo. Occorre anche ricordare che le forze di ordine pubblico erano in numero esiguo rispetto a oggi e quindi era più difficile intervenire in tempo utile. La Stampa descrisse l’episodio come un «terribile fatto di sangue, avente a protagonisti i soliti barabba crudeli e sanguinarii ». Di questi avvenimenti di cronaca e di altro scriveva «Toga-Rasa», che era lo pseudonimo di Giovanni Saragat – Giovanni e non Giuseppe, non confondiamo le carte e andiamo per ordine. In un articolo a lui attribuito così si narra dei barabba:
L’orribile fattaccio avvenuto alcune settimane fa a Torino ha richiamato l’attenzione del pubblico italiano sui barabba, una piaga torinese, come a Milano i teppisti, a Bologna i salati, a Napoli i guappi e i camorristi, a Palermo i mafiosi e via dicendo. […] Bisogna però notare che, mentre in Sicilia e nel Napoletano mafia e camorra assumono la forma di vere e proprie associazioni a delinquere contro le persone e le proprietà, i barabba non sono che prepotenti del momento, giovinastri e avvinazzati, talvolta ladri e «souteneurs», ma non vincolati da un legame fra loro. […] Ad ogni modo barabba significa in ebraico ‘figlio della vergogna’ e il nome è bene appropriato a questi tipi di delinquenti [N.d.A.: barabba significa in realtà «figlio del padre»]. Il barabba torinese ha generalmente un’età dai 18 ai 25 anni: dopo i venticinque se non è finito in galera, diventa un buon operaio o magari un onesto borghese.
Saragat, poi, riporta una grottesca descrizione dei costumi del barabba, anche quelli morali:
Il barabba non è che un ragazzaccio: magro, livido, cencioso, col cappello sulla nuca o calato sugli occhi a seconda delle circostanze; sputa tra i denti, lanciando lontano uno sputo che cade preferibilmente sulle vesti delle signore e sugli abiti dei pacifici borghesi. La giacca corta, i pantaloni aderenti al ginocchio e larghi in fondo; le scarpe a punta, con tacchi alti, quando non sono bucate e rotte, ecco la toilette del barabba. La sua figura morale è ancora più brutta. Egli vuol essere una protesta continua, vivente, contro la società e contro chi sta meglio di lui. Se la prende infatti, generalmente, coi signori e coi militari per uno sfogo di brutale malvagità, incontrando qualcuno sputacchia, insulta, percuote, accoltella. È un anarchico, senza avere quasi sempre una concezione politica del suo… anarchismo.
Certo non un ritratto incoraggiante! E ancora, se non fosse abbastanza:
Ma è anche, non di rado, un essere ignobile, che vive alle spalle di donne perdute, sulle cui carni lascia però la livida impronta delle sue bastonate. E quando la ragazza non molla danari corre anche il rischio di essere uccisa.
Non si preoccupi chi legge, perché anche allora c’erano le quote rosa, in percentuale inferiore ma ben attestate, come si può leggere:
Pur troppo, le donne ingrossano la famigerata schiera, e non poche di esse vanno ogni anno condannate per ferimenti e omicidi, come per ribellioni alla forza pubblica. […] E questi tipi sono tutt’altro che rari in Torino: se ne incontrano, invece, frequentemente. […] La sera si vedono comitive di dieci o dodici barabba tra maschi e femmine, andar gironzolando per varii quartieri: guai a chi li incontri quando è solo, in una strada deserta.
Giovanni Saragat si era trasferito dalla Sardegna a Torino nel 1880. Esercitava la professione di avvocato penalista e aveva una spiccata passione per la scrittura, collaborava con il giornale umoristico Il Fischietto, e sotto lo pseudonimo di Toga- Rasa tenne la rubrica di cronaca giudiziaria della Gazzetta Piemontese per nove anni. Riuscì a pubblicare dodici testi, tra cui sei libri che narravano le storie di cronaca giudiziaria che lui bene conosceva. Giovanni sposò Ernestina Stratta, sì, il cognome è proprio quello che campeggia nell’insegna della nota pasticceria-confetteria torinese sotto i portici in piazza San Carlo, ed ebbe tre figli, tra cui Giuseppe, che divenne quinto presidente della Repubblica Italiana dal dicembre 1964 al dicembre 1971. Ripensando ai barabba, a volte pare che il tempo si sia fermato, che tutto si ripeta nei noti corsi e ricorsi storici e sociali perché i barabba, purtroppo, non si sono mai estinti: hanno solo cambiato denominazione.
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