La peste del 1630 colpì Torino con violenza, lasciando la città abbandonata a sé stessa dalle autorità che fuggirono. Un evento drammatico da cui Torino seppe rialzarsi prontamente, ricordato come la «peste di Bellezia», dal nome del sindaco che rimase, nonostante tutto, ad amministrare la città.
di Roberto Bamberga
La peste a Torino, nel 1630, ha un testimone: è Gian Francesco Fiochetto (1564-1642), medico formatosi alla Sorbona di Parigi, poi professore all’Università di Torino, archiatra del duca Carlo Emanuele I e protomedico del ducato sabaudo. Si tratta, tanto per capirsi, non di un dottore qualunque ma di uno dei membri più importanti dell’élite torinese di allora. Nel suo Trattato della peste, et pestifero contagio di Torino, Fiochetto non racconta solo la sua esperienza nella città appestata, cosa già di per sé interessante, ma lo fa attraverso il proprio bagaglio di conoscenze mediche e culturali, restituendo così al lettore di oggi un filtro interpretativo tale da rendere la lettura del suo volume ancora più intrigante.
I primi casi
Con tutta probabilità la peste arrivò in Piemonte, come nel Nord Italia, nel 1629, portata dagli eserciti, francesi e tedeschi, che allora si stavano fronteggiando nella Pianura Padana. Il contesto è quello della guerra dei Trent’anni e i Savoia erano schierati con l’Impero germanico alla conquista del Monferrato; contro di loro i francesi, che superarono i valichi alpini lasciando nelle città in cui passavano, per esempio Susa, focolai di peste. Nel giugno del 1629 dal contado iniziarono a fluire a Torino poveri e mendicanti, gente in cerca di sicurezza e protezione, trovando posto negli ospedali (quello di Po e quello di San Lazzaro, presso Porta Palazzo, furono presto stracolmi) e aumentando esponenzialmente le possibilità di contagio. In più, nonostante i primi casi segnalati, le merci e i commercianti provenienti da fuori continuavano ad entrare in città. Nell’estate del 1629 il comune iniziò a prendere in mano la situazione, ordinando le prime quarantene, intensificando i controlli, donando oboli ai bisognosi e trasferendo i malati fuori dalle mura. A questa stretta seguirono però le prime trasgressioni: in una casa vicina alla chiesa di San Dalmazzo, per esempio, venne scoperto un ragazzo appestato; nonostante la presenza di un picchetto di guardia alla porta, la sorella riuscì a evadere comunque dalla quarantena, portando con sé una serva (già malata). Con il passare del tempo i casi aumentarono: nel gennaio 1630 si ammalò Franceschino Lupo, calzolaio, «al quale sopravenne una codisella [cioè un bubbone] della grandezza di un uovo del colore della cotica, due dita sopra l’inguine e un carbone [una pustola scura] di colore cenere nella schiena quattro dita sopra i reni». I medici decisero per il «barreggiamento» (la quarantena) di tutto l’edificio dove abitava e dove si contavano sessantacinque persone residenti, perché «nella peste stando le cose in dubbio, conviene metterli in sicuro».
Lo scoppio
Si arriva così alla primavera successiva, quella del 1630, quando la situazione, già grave, diventò catastrofica. A maggio la corte abbandonò la città, seguita dai ricchi e da quanti si spostarono nelle case in collina o in provincia. Un esodo di rappresentanti delle istituzioni e di «classe dirigente» che, come più volte ricorda Fiochetto nel suo saggio, creò un vuoto al vertice della città, rendendone difficile la gestione. Fu il momento in cui emerse la figura di Giovanni Francesco Bellezia, il «sindaco della peste», che restò al suo posto coordinandosi con quei pochi consiglieri rimasti e ritagliandosi così un posto nella storia torinese. Quando fu costretto a letto da una malattia, Bellezia continuò a convocare un ristretto consiglio sotto il pergolato del giardino di casa sua, vicino la chiesa di Santa Maria di Piazza, dove partecipavano Giovanni Antonio Beccaria, Giovanni Battista Fetta e lo stesso Fiochetto, conversando con loro dalla camera da letto. Anche Fiochetto quindi non abbandonò Torino ma, anzi, si diede da fare per cercare di applicare al meglio le prescrizioni sanitarie previste. Si lamentò così che mobili e abiti «infetti» venissero bruciati per le strade strette della città e non fuori dalle mura, che molto spesso i roghi venissero saccheggiati prima ancora di appiccarsi da persone alla ricerca di legna per scaldarsi o di stracci. Il protomedico registrò casi di untori, come quello di Margherita Torselina, una giovane popolana che «colta in flagrante» accusò tal Francesco Giugulier, soldato della guardia del duca, di esserne il mandante. Il soldato, peraltro già infettato dalla peste, fu condannato il 3 agosto del 1630: giustiziato da archibugiate in piazza Castello, il cadavere fu immediatamente bruciato (un po’ meno cruento di quanto avvenne a una ventina di untori durante la peste del 1599, condannati a essere strangolati, quando non arrotati, sulla medesima piazza). Quello degli untori, che per noi è un capitolo da relegare tra le stranezze e le superstizioni tramandate dalla storia, era per loro un problema reale e assolutamente plausibile all’interno del quadro scientifico in cui si muovevano, tanto che lo stesso Fiochetto non ne mise mai in dubbio gli aspetti nefasti. Del resto, se la catena dei contagi per il protomedico sabaudo era generata dalla corruzione di elementi naturali (cibo, acqua, legno ecc.), se ne desume che era assolutamente possibile per lui che «ungendo» le porte con acqua inquinata o simili sostanze potesse avvenire, per contatto, il contagio.
La peste sulla città
Il legame tra guerra e peste fu catastrofico per Torino. Intorno alla città si muovevano i soldati, alla ricerca di cibo. Questi rappresentavano un problema sia per i rifornimenti di cibo in città sia per la salute dei cittadini: quando morivano, i cadaveri dei soldati rimanevano rovesciati sulle strade per giorni, tanto che qualche volta si dovette far uscire i beccamorti dalle mura per buttare i corpi nel Po. Per non far entrare i soldati in città si decise che fossero i torinesi stessi a prestare servizio di ronda sulle mura: non pochi, allora, uscirono dalle loro case mostrando bubboni e segni del flagello. La peste si abbatté quindi sull’intera popolazione: solo una dozzina di case in città fu risparmiata, ricorda Fiochetto, mentre degli undicimila uomini che rimasero a Torino, sempre stando ai dati raccolti dal protomedico, tremila trovarono la morte. Nel giro di pochi giorni intere famiglie furono spazzate vie mentre la confusione iniziò a salire e le regole a essere dimenticate. Nelle strade regnavano caos e corruzione:
«atteso che già i medici, i cirugici, i barberi, i beccamorti, i carrettieri, i soldati di guardia e in una parola tutti coloro che erano sotto il nome de brutti, andavano co gran confusione senza guardie, già tutte morte, e senza segnal che gli doveva distinguer da gli’altri, eror gravissimo, e assai da me cridato, perché […] dalla confusione de nostri in breve la città si riempì di tanta infezione e morti che era impossibile portarne, ogni giorno, la metà ai carneri fuor delle muraglie, dove anco ne lasciavano la maggior parte insepolti, per la necessità d’attender a nettare la città. Nella qual il giorno che attendevano a sepoltura, restando nelle strade tanto piene, che non si vedeva sopra le porte delle case, che cadaveri, e avanti molte d’esse amontonati due, tre e quattro insieme, di modo che per levarsi il fetor, che gli ammorbava, già i beccamorti, e carrettieri (ancor che pagati dalla città […] si pagavano anco da particolari, com’all’incanto, essendo ancora essi per la morte di molti dei loro compagni ridotti a poco numero, se ben per haverne molti e supplir a tanta necessità si fossero più volte votate le prigioni de forfanti […]. Dico, che si pagavano come all’incanto, servendo a chi più gliene dava di modo, che spesso lasciavano i cadaveri più corrotti e fetenti di molti giorni a danno pubblico, per quello sporco guadagno)».
Questo stato di confusione dilagante rese impossibile ogni sorta di controllo. Fiochetto racconta di casi di cadaveri, ormai irriconoscibili, ritrovati in case ritenute abbandonate, anche durante i primi mesi del 1631. Le autorità ducali richiedevano di censire lo stato dei torinesi e, se morti, di scoprire se la causa fosse stata la peste oppure no. Comandi che non potevano però più essere eseguiti, tale era il caos che regnava a Torino.
Saltano le regole
La mancanza di un forte potere in città favorì i ladri e i criminali. Furti e ruberie erano all’ordine del giorno, tanto che il medico Emanuel Roncino lasciò appositamente un cadavere nel letto della sua casa in collina perché servisse come «antifurto» contro la soldataglia tedesca, solita svaligiare appartamenti. La corruzione era visibile a tutti i livelli: anche i magistrati, infatti, invece di impartire pene corporali sanzionavano i reati con pene pecuniarie, intascandosi i soldi. I morti, coperti da lenzuola, venivano abbandonati ai lati delle strette strade medievali, spaventando anche i cavalli che malvolentieri si avventuravano tra quei mucchi maleodoranti. Fiochetto racconta che, esasperato dai miasmi, si rivolse ai beccamorti ricordando loro chi lui fosse e intimandoli a liberare la strada davanti casa sua; questi procedettero a caricare i cadaveri sui carri liberando la zona. Non appena la notizia si sparse furono però i suoi vicini ad ammucchiare i cadaveri davanti casa sua, sicuri, in questo modo, di vederli portati via, sconcertando il protomedico che si ritrovò nella stessa situazione miasmatica di partenza.
Come poi spesso accade, la morte incombente generò una voglia di vita incontrollabile: Fiochetto racconta che appena «in questa [casa] il cadavere del marito era in strada e nell’altra [casa] quello della moglie, che si trovavano pronti uomini e donne a riscaldar il letto del morto non ancora ben raffreddato, con manifesto pericolo». Il dato, riportato anche da Alessandro Barbero nella sua Storia del Piemonte, è quello di cinquecento licenze di matrimonio rilasciate nella sola Torino: un numero molto alto, che coglie in pieno il desiderio di vita con cui i torinesi provarono a contrastare il flagello. Una pratica che si rivelò però controproducente se, come scrive Fiochetto, molti di questi secondi matrimoni durarono solo poche settimane, se non pochi giorni, prima della morte di uno dei due coniugi. Oltre a queste situazioni, alcuni nuclei familiari dovettero abbandonare al proprio destino vecchi o bambini, a causa del poco sostentamento disponibile, mentre altri non ressero la pressione psicologica degli eventi: «alcuni non potendo superar se stessi nel pensiero della varietà di tante calamità accoppiate insieme stavano due, tre e quattro giorni e notti in piedi appoggiati alle muraglie, senza mangiar e bere e senza parlare, come astratti e attoniti, mirando hor il Cielo, hor la Terra, hor a man destra, hor a sinistra, fin che mancandogli le forze snervate in parte dal male, muti, con una subita caduta rendevano l’anima».
I lazzaretti
Nonostante i molti problemi che fu chiamata ad affrontare, la città riuscì a organizzare dei lazzaretti, che Fiochetto ricorda al di là della Dora. Un totale di sei lazzeretti dove le persone erano divise tra sospetti e malati, tra (ovviamente) poveri e non poveri. Anche qui, nonostante si fosse fuori dalle mura, la corruzione era all’ordine del giorno: c’erano casi in cui il personale sanitario, benché retribuito dalla municipalità, non si presentava a svolgere il proprio mestiere, casi di furti di cibo riservato ai malati, appropriazioni indebite e così via. Con l’arrivo dell’autunno, il comune decise di spostare i malati dentro le mura, al palazzo dei Carelli nell’isola di Santa Francesca (oggi delimitato da via Alfieri, via Arsenale, via Lascaris e via San Francesco d’Assisi): milleduecento persone, sempre stando al Fiochetto, vi furono richiuse. Il palazzo fu scelto per due ragioni determinanti: in primo luogo perché facile da controllare per i picchetti di guardia ai cancelli, in secondo luogo perché esposto ai quattro venti, favorendo così l’areazione delle stanze. Una tra le prime raccomandazioni che i medici davano ai malati, infatti, era di areare e profumare il più possibile le stanze in cui si viveva. A quel punto fu ordinato di distruggere le strutture temporanee al di là della Dora, ma, anche in questo caso, molti materiali, dai legni ai materassi, furono sottratti ai roghi per essere successivamente rivenduti.
Verso la fine
Nonostante tutto, già il 13 settembre era stato possibile riformare un consiglio cittadino, che continuò a riunirsi nei giardini e in ambienti aperti: prima tra la Porta Nuova e la Cittadella, poi nel giardino del conte Cernusco, poi nel giardino del palazzo dell’albergo di Virtù e infine, entrando nell’inverno e diminuendo il contagio, nel palazzo messo a disposizione dal cardinale Maurizio di Savoia. Quando nell’aprile 1631 il morbo diede nuovi importanti segni di presenza in città, il municipio impose una nuova quarantena che scatenò, ancora una volta, la fuga dei ricchi e dei benestanti. Ma la situazione questa volta rimase sotto controllo e a luglio il male sembrava scomparso.
Nonostante Fiochetto avesse già vissuto la peste del 1599-1600 e la sua coda successiva, quella del 1630 colpì maggiormente il suo spirito, attraverso scene che «mai Euripide ne altro scrittor tragico, antico e moderno, seppe di gran lunga finger simili, ne verdico istorico ebbe soggetto, col quale potesse ne sapesse arrivare a descrivere altra Historia priena di compassione, qual è quella presente».
In conclusione: un reperto di storia della medicina.
Fiochetto conosceva e condivideva le ricerche più aggiornate del suo tempo: quelle di Girolamo Fracastoro (1476/78-1553), che aveva indirizzato la ricerca medica sulla fonte dei contagi, rintracciandola in uno scambio di corpuscoli da individuo a individuo, e quelle di Giovanni Filippo Ingrassia (1510-1580), anche lui convinto che i contagi si sviluppassero per contatti tra individui. E proprio l’opera di quest’ultimo, l’Informatione del pestifero, et contagioso morbo, il quale affligge et have afflitto la città di Palermo et molte altre città e terre di questo Regno di Sicilia nell’anno 1575 e 1576, è il testo con cui Fiochetto si confronta più spesso nelle pagine del suo saggio, specie per quanto concerne la quarantena e l’isolamento dei malati. Tuttavia, il quadro generale in cui si muove il protomedico sabaudo è ancora quello stabilito dalla tradizione classica, da Galeno in poi. Questo, che ai nostri occhi può sembrare un controsenso, è in realtà un passaggio essenziale nella storia della medicina tra Cinquecento e inizio Seicento, dove le nuove teorie arricchiscono il quadro delle conoscenze acquisite senza metterlo in discussione in toto. Così Fiochetto, se da un lato può abbandonare la credenza passata che vedeva nella pandemia una rottura dell’equilibrio del cosmo e dell’armonia prestabilita («maligno influsso causato da infortuanti aspetti de corpi celesti»), dall’altro non può che ricercare l’inizio della catena contagiosa nella corruzione dei cibi e delle acque, nonché incasellare i diversi sintomi della peste nella più classica delle teorie degli umori di ascendenza galenica. Per esempio i collerici, caratterizzati da un eccesso di bile gialla, quando colpiti dal morbo presentano «gli occhi infiammati, sono inquieti, non dormono, delirano, sentono dolore e puntura e dolori intollerabili allo stomaco; a questo seguono fastidio di stomaco, nausea, vomito, sudori ora caldi e ora freddi» ma soprattutto una sete inestinguibile, che li fa precipitare nei fiumi o nei pozzi «come seguì ai Lanzatetti di Torino, vicino al fiume Dora, al cherico di San Giovanni Battista (chiesa cattedrale), Giovanni Antonio Bogio […] si precipitò dal ponte di detto fiume nell’acqua e s’affoggo». Seguendo questo quadro teorico Fiochetto non può che incasellare i sani nella categoria degli uomini di temperamento freddo, caratterizzati da vene e arterie «anguste», nelle quali il morbo difficilmente accede.
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