Con lo sviluppo della guerra moderna e i miglioramenti tecnici, i cecchini si ritagliarono un ruolo sempre più significativo. Ma come si sviluppò questa modalità di combattimento e a chi i cecchini devono il loro nome?
Di Gian Vittorio Avondo e Gianbattista Aimino
Come nascono i cecchini? Da quando esistono le armi da fuoco, danneggiare il nemico decimandone gli uomini tenendoli costantemente sotto tiro con fucilieri scelti è una tattica assai vantaggiosa. Ciò perché oltre ad arrecare un danno numerico si arreca un danno psicologico di vastissima portata, costringendo chi si sente inquadrato a vivere nel perenne terrore, impedendogli anche le operazioni più importanti e necessarie come il trasporto e la consegna del cibo a chi si trova in prima linea. Fino alla fine del Settecento, tuttavia, questa pratica risultò molto difficile perché non si usavano fucili a canna rigata ma a canna liscia, che non permettevano di indirizzare il proiettile con precisione. Nel Seicento e nel primo Settecento si cercò di ovviare al problema utilizzando fucili con canne lunghe circa 2 metri (famosa la colubrina con cui il capitano valdese Giosué Gianavello teneva sotto tiro i soldati sabaudi), che però offrivano enormi svantaggi nel brandeggio, nell’avancarica e nel peso.
Metti una sigaretta in tre
I primi fucili a canne rigate risalgono alla fine del Settecento e sono inglesi, e il primo vero banco di prova per i tiratori fu la guerra anglo-boera, combattuta in Sudafrica a due riprese tra il 1880 e il 1902, che consacrò alla Gran Bretagna l’intero possesso dello Stato del Capo. Nell’occasione furono proprio i boeri – contadini di origine olandese primi emigrati nel luogo – che, privi di addestramento ma abili nella caccia, si dettero alla guerra di cecchinaggio proprio sfruttando le potenzialità e la precisione dei nuovi fucili a canne rigate. A questa guerra si fa anche risalire la credenza secondo cui quando si accende una sigaretta e la si fa circolare fra tre persone, la più giovane sarebbe condannata a morire nel giro di poco tempo. In questa convinzione c’è un fondo di verità, ed è legato proprio all’abitudine boera di stare in costante osservazione delle trincee nemiche e sfruttare le fiammelle dei cerini per le sigarette per prendere la mira. Soprattutto tra gli inglesi, per i quali il bon ton non era un optional, quando si condivideva una sigaretta in tre di norma fumava prima il più anziano e il più giovane arrivava ultimo. Bene, proprio il passaggio della fiammella dall’uno all’altro alla fine risultò essere fatale in innumerevoli casi: sul primo uomo il tiratore spianava il fucile, sul secondo lo puntava e sul terzo sparava…
Cecco Beppe e i suoi cecchini
Nella Grande Guerra gli austriaci utilizzarono molto questa tecnica sul fronte carsico, gettando nel terrore i fanti di trincea italiani e scompigliandone le fila. Tra Ottocento e Novecento, le guerre tra Austria e Piemonte (prima) e Italia (poi) furono ben quattro: le tre guerre d’indipendenza e la prima guerra mondiale. In tutte e quattro l’imperatore austriaco fu sempre il medesimo: Francesco Giuseppe d’Asburgo, che salito al trono nel 1848 vi rimase fino al 1916, anno della sua morte.
Del pericolo non ne faccio più caso, i colpi di cannone e fucilerie non ne faccio più caso, ma di più son sei giorni che veglio senza dormire mezzora nelle trincee ce l’acqua [sic] e fango alto al ginocchio e addossato a me non si trova un filo asciutto e continua a piovere, di cambio non se ne parla e si continua da male a peggio
Essendo così longevo e in qualche modo responsabile di questi conflitti, divenne per gli italiani una vera ossessione e, come tale, svilito e ridicolizzato ogni volta si parlasse di lui. Tra gli sfottò più benevoli vi era la deformazione confidenziale del suo nome in Cecco Beppe. I cecchini, quindi, erano i tiratori di Cecco, e il termine, al di là delle intenzioni di chi lo aveva creato, varcò i confini e divenne internazionale.
E non solo loro
I cecchini furono solo uno dei tanti ingredienti di una guerra che si combatté anche e soprattutto sul morale dei soldati, sulla loro capacità di resistenza fisica e psicologica. Un’esperienza molto ben riassunta in questa lettera, spedita a pochi mesi dall’ingresso dell’Italia nel conflitto. «Da qui in mezzo ai patiboli rispondo alle vostre care parole che solo più quelle mi danno un po’ di tranquillità sapendovi in salute tutti Carissimi cognato e sorelle, anch’io ancora sono in salute ma anche quella mi toccherà consumare, non tutto vi posso spiegare perché certo vi farei fare qualche lagrima. Del pericolo non ne faccio più caso, i colpi di cannone e fucilerie non ne faccio più caso, ma di più son sei giorni che veglio senza dormire mezzora nelle trincee ce l’acqua [sic] e fango alto al ginocchio e addossato a me non si trova un filo asciutto e continua a piovere, di cambio non se ne parla e si continua da male a peggio, ma voi altri non vi dovere fastidire io non ne faccio neanche più caso siamo tutti così, bisogna rassegnarsi a un solo volere e stare sotto la protezione di Dio che solo lui ci può aiutare. La grandezza d’Italia sarà quella che sarà a noi quasi tutti la. […] Io son di buon umore lo stesso e anche voi fatevi coraggio che se Dio vorrà qualche volta s’abbraccieremo [sic] tutti quanti, vostro Carlino amato […] Fevla bin e via i sagrin cic ciuc nduma a la posta». (Lettera del 2 ottobre 1915 di un alpino non identificato del battaglione «Val Pellice», Archivio privato – Pinerolo).
Lascia un commento