Le cinte daziarie delle città italiane sono state le ultime barriere a separare città e campagna. Attive fino al Novecento, sono state l’ultimo «muro» tra interno ed esterno e hanno caratterizzato l’urbanistica delle nostre città molto più di quanto si pensi. Questo il caso di Torino.
Di Diego Vaschetto.
Le cinte daziarie sono oggi dimenticate nelle nostre città, ma hanno avuto un ruolo non secondario nello sviluppo urbanistico. Osservando una qualunque pianta di Torino, si potrà notare come lo scacchiere romano, che con il progressivo ampliamento cittadino si è tentato di prolungare e mantenere anche nei quartieri periferici, è interrotto da due anelli concentrici oggi costituiti da grandi viali a scorrimento veloce.
Il tracciato
L’anello più interno è formato dal concatenamento dei corsi Bramante, Lepanto, De Nicola, Mediterraneo, Ferrucci, Tassoni, Svizzera, Mortara, Vigevano, Novara e Tortona, mentre quello più esterno inizia in via Onorato Vigliani, a Mirafiori, per poi proseguire con via Guido Reni, via De Sanctis, via Pietro Cossa, via Sansovino, via Paolo Veronese, piazza Rebaudengo e via Botticelli, terminando presso il Po in piazza Sofia.
Il tracciato di questi viali ricalca l’antico percorso delle due barriere daziarie che, per quasi ottant’anni, hanno caratterizzato la periferia di Torino.
Le prime cinte daziarie, di circa 16 km, vennero realizzate su progetto dell’ingegnere Edoardo Pecco, in seguito alle novità in materia fiscale previste nello Statuto Albertino del 1848, che concedevano alla città il diritto di riscossione diretta dell’imposta sui generi di consumo. Vennero completate nel 1858, dopo cinque anni di lavoro che consentirono d’innalzare un muro continuo che racchiudeva al suo interno l’intero nucleo abitato ottocentesco e alcune aree campestri ancora non urbanizzate.
In collina
Sul versante collinare, la cinta venne realizzata nell’ultimo quarto dell’Ottocento seguendo il Po tra il ponte Isabella e la barriera di Piacenza in corso Moncalieri, dove resta l’ultimo casotto di guardia ottocentesco. Da questo punto saliva in collina aggirando il colle dei Cappuccini seguendo i corsi Giovanni Lanza e Quintino Sella, per poi scendere in piazza Borromini (barriera di Casale) al ponte Regina Margherita, realizzato nel 1882 sulla linea della cinta daziaria per allacciarne i due capi interrotti dal fiume.
Le cinte daziarie erano costituite da un vero è proprio muraglione protetto da un fossato e percorso da due strade, una interna e una esterna, pattugliate dai dazieri che controllavano il muro anche attraverso torrette distribuite lungo tutta la recinzione.
Sul lato collinare era presente una cancellata in ferro sostenuta da un basso muro in mattoni, di cui restano numerosi resti sui corsi Quintino Sella e Giovanni Lanza, che tutt’ora ne separano le carreggiate facendo anche da contrafforte laddove corrono su piani sfalsati. 07app1, 07app2 e 3
La nascita dei borghi e la nuova cinta
Attorno alle cinte daziarie si svilupparono ben presto numerose attività industriali cui si aggiunsero artigiani e commercianti, che evitavano così di pagare l’imposta di consumo, obbligatoria per chi risiedeva in città.
Questi primi nuclei abitati saranno poi all’origine dei successivi quartieri periferici di Torino, che spesso presero il nome proprio dalle barriere daziarie, come nel caso della barriera di Milano, di Nizza o di Francia.
Per porre un freno al disordinato sviluppo urbanistico e all’aumento incontrollato della popolazione al di fuori delle cinte daziarie più importanti, nel 1912 si decise di dismettere la prima barriera per realizzarne una seconda molto più vasta che inglobasse del tutto i nuovi quartieri.
La nuova barriera era però molto più bassa di quella ottocentesca e in alcuni tratti non venne mai completata, mentre nel settore collinare rimase pressoché la stessa, soltanto allungata verso nord: la barriera di Casale venne spostata da piazza Borromini al vasto spiazzo poco oltre il piccolo cimitero di Sassi, lungo la strada per San Mauro.
La fine delle cinte daziarie
Nel 1930 un decreto a firma di Mussolini abolì definitivamente le cinte daziarie cittadine nell’ottica della modernizzazione fascista delle città, che vedeva una nuova urbanizzazione basata su strade larghe, ampi spazi e grandi assi viari di collegamento che trasformavano i muri daziari in fastidiosi impedimenti appartenenti al passato.
L’imposta di consumo, con riscossione ai caselli daziari, nel frattempo sorti lungo tutte le strade di accesso, rimase in vigore fino al 1972, quando venne abolita con la riforma finanziaria di quell’anno, che accentrava tutte le imposte a Roma e poi le distribuiva ai vari enti locali, comuni compresi.
La trasformazione creò grandi problemi finanziari per il Comune, che aveva nella riscossione del dazio la sua entrata principale; queste difficoltà portarono a rivedere i finanziamenti centralizzati solo vent’anni più tardi, quando l’antico dazio fu trasformato nelle tasse comunali (ICI, IMU, TARI, IUC ecc.).
Le barriere di Piacenza e di Casale
Il casotto della barriera di Piacenza in corso Moncalieri (07bis e 07bisatt) è l’ultimo casello rimasto tra quelli realizzati nel 1858 lungo il perimetro della prima cinta daziaria dismessa nel 1912, poiché in questo tratto il confine daziario rimase sempre lo stesso fino all’eliminazione della tassa.
Il tram elettrico a trolley della linea B delle Linee Belghe faceva capolinea poco oltre la barriera daziaria, e colloca questa immagine nei primissimi anni del Novecento.
Le barriere più trafficate (di primo ordine) come quella di Nizza (piazza Carducci), di Francia (piazza Bernini) e di Milano (piazza Crispi) avevano due casotti (uno per la guarnigione fissa e il secondo per le attività daziarie), mentre le altre barriere principali (di secondo ordine) possedevano un solo edificio realizzato in forme standardizzate. Sotto al portico avvenivano le operazioni doganali e la pesa delle merci, nei locali al pianterreno vi erano gli uffici per il calcolo e la riscossione delle imposte, mentre ai piani superiori si trovavano gli alloggiamenti delle guardie, che fino al 1930 risiedevano nei caselli.
Gli agenti daziari, i cui ufficiali provenivano spesso dalla Guardia di Finanza, erano a tutti gli effetti agenti di polizia locale in grado di operare arresti, con una loro specifica divisa (che restò obbligatoria fino al 1953) e dotati di pistola d’ordinanza. Sulle vie di accesso secondarie esistevano barriere di terzo ordine, non abilitate alla riscossione, chiamate «baracconi» e costituite da casotti in legno o da semplici garitte che ospitavano gli agenti in servizio che lasciavano passare persone e merci non soggette a dazio, inviando quelle tassabili alla più vicina barriera principale.
In questo tratto collinare le barriere di terzo ordine erano quelle di Val Salice e di Villa della Regina, cui si aggiunsero quelle di Val San Martino, di Valpiana, di Chieri e di Superga con l’allargamento della cinta dopo il 1912.
Il casello della carriera di Casale in piazza Borromini, anch’esso di secondo ordine, rimase in funzione fino al 1912, per poi essere spostato nei pressi del cimitero di Sassi.
L’edificio venne abbattuto all’inizio degli anni Trenta, mentre la presenza del tram della linea 5 ATM, attestato presso il casotto del dazio ormai dismesso, permette di collocare quest’immagine nella seconda metà degli anni Venti.
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