Intervista a Tomaso Montanari, professore ordinario di Storia dell’Arte moderna all’Università per Stranieri di Siena.
di Roberto Bamberga
La prima domanda non può che essere questa: che cosa rappresenta Torino per uno studioso dell’arte barocca?
Il tratto fondamentale della Torino barocca e moderna è proprio quello che oggi manca all’Italia: una fortissima, e consapevole, capacità di pianificazione, che tiene insieme la rappresentazione del potere ducale, il collegamento strategico e funzionale, l’unificazione formale delle preesistenze e la progettazione unitaria delle nuove componenti urbane, attuata anche attraverso l’obbligo imposto ai privati di dotare le nuove case di una facciata che continuasse senza soluzioni di continuità il fronte viario. E poi l’estro, quasi inaudito: questo «basso continuo» urbanistico è felicemente lacerato dalle architetture progettate da Guarino Guarini, caratterizzate da un’irrituale, travolgente individualità. Non si sarebbe potuto complicare in modo più felice e immaginifico il controllato equilibrio che i duchi di Savoia andavano imponendo alla loro regolatissima capitale. E ancor’oggi questa divina capacità di Guarini di costruire un calcolato controcanto all’ordine sabaudo è evidente a chiunque percorra le vie ortogonali e monocrome della città secentesca e s’imbatta nelle inquietanti curve del geniale palazzo Carignano.
Il rapporto tra Barocco e controriforma è stato diffusamente studiato. Personalmente ho sempre trovato suggestivo il fatto che la magnificenza barocca ornasse le chiese di Torino, una città che nel Seicento si trovava a guardare le Alpi abitate da popolazioni protestanti. Potrebbe, questa dialettica tra cattolici e protestanti, fornire un ulteriore livello di lettura per il barocco piemontese?
Forse più importante è il legame con la cattolicissima corte di Francia: Torino è Italia, ma è anche Parigi. E come il barocco romano può trapiantarsi a Parigi: la risposta riguarda anche Torino. La risposta è la Torino barocca.
Esiste una peculiarità del barocco piemontese, un’aria di famiglia che lo differenzi da quello romano e da quello europeo?
Sì, ed è il rapporto tra ordine e rottura dell’ordine. A Torino questo gioco è portato a un parossismo vertiginoso, che non cede alle rotture clamorose del Sud e non dialoga così esplicitamente col Rinascimento, come a Roma. È tutto più astratto, più mentale.
Solitamente il barocco piemontese viene considerato – soprattutto dai non addetti ai lavori – quasi un’arte di Stato. Dalla capitale alle città di provincia, chiese e interventi urbanistici sembrano voler omologare il regno, plasmando un’immagine unica di un territorio, in realtà, culturalmente molto diverso. Una tesi che pare accreditarsi anche considerando la lentezza con cui il successivo neoclassicismo s’impose da queste parti, abbastanza in ritardo rispetto ad altri palcoscenici europei. Pensa che questo possa essere solo una facile ricostruzione o c’è del vero?
Innegabilmente vero. Così va intesa la capacità di progettare il rapporto tra la capitale e il suo territorio, innervato di residenze ducali che sono altrettanti nodi di un’urbanizzazione attentamente studiata. È in questo senso illuminante la risposta che – nella finzione letteraria del dialogo su Venaria Reale. Palazzo di piacere e di caccia ideato dall’Altezza Reale di Carlo Emanuel II Duca di Savoia, 1674 – l’artefice della Torino moderna e barocca, Amedeo di Castellammonte, fornisce alla domanda del Bernini personaggio letterario: il duca Carlo Emanuele II ha voluto la reggia di Venaria per completare (dopo le residenze dovute ai suoi predecessori: tra cui Rivoli, Mirafiori, il Valentino, la romanissima Vigna del cardinale Maurizio di Savoia) «un’intiera corona di delizie a quest’augusta città di Torino». Venaria non è, dunque, solo uno straordinario santuario dedicato alla passione ducale per la caccia al cervo, ma è anche una espansione della capitale che iscrive Torino al canone delle grandi capitali europee: a partire dalla Parigi, e dalla Versailles, del Re Sole. È un intero territorio che prende forma e prende ordine.
Il restauro e la riapertura al pubblico della cappella della Sindone ha svelato agli occhi di tutta una generazione un’opera che è una vera e propria macchina scenica, una costruzione architettonica che è insieme scenografica e totalmente immersiva per lo spettatore. Eppure, la fama del suo progettista, Guarino Guarini, sembra essere impolverata: pochi i libri su di lui così come lo spazio dedicatogli dai media che si occupano di divulgazione culturale. Quale può essere il motivo, secondo lei?
Perché Guarino è un irregolare, uno che rompe le griglie dei manuali. Un eclettico storicista ante litteram, se vuoi. Guarini era senza una patria definita: nato a Modena, dal 1639 al 1647 si formò a Roma, nel noviziato dell’ordine dei Teatini, nel quale poi prese i voti: ed è qui che assorbì profondamente (oltre a una complessa dottrina matematica, filosofica e teologica) le suggestioni, i risultati, le sfide della trionfante stagione in cui Bernini, Pietro da Cortona e Borromini cambiavano il volto della città e insieme quello dell’architettura stessa. Guarini fu conquistato soprattutto dalla lezione di Borromini, che approfondì e radicalizzò, verificandola alla luce della sua stessa radice: quella della grande stagione gotica. È lo stesso Guarini a dichiararlo, in un testo illuminante: «Le simmetrie dell’architettura possono, senza sconcerto fra loro, essere varie. Si prova: perché non vi è scienza, sebben evidente, che non abbia non solamente varie, ma di più contrarie opinioni, ed anche in materie gravissime di fede, di costumi, e d’interesse; onde quanto più potrà essere varia l’architettura, che non si compiace, se non di piacere al senso; né altra ragione la governa, se non l’aggradimento di un ragionevole giudizio, e di un occhio giudizioso? Ciò esperimentasi nelle diverse proporzioni, che danno gl’ingegnosi e celebri architetti moderni, come vedremo nelle antichità romane, che variansi da’ sentimenti di Vitruvio. Si può anche questo conoscere, e nell’architettura gotica, la quale doveva pur piacere a que’ tempi, pur al giorno d’oggi non è punto stimata, anzi derisa, benché quegli uomini veramente ingegnosi abbiano in essa erette fabbriche sì artificiose, che chi con giust’occhio le considera, sebbene non così esatte in simmetria non lasciano però di essere meravigliose, e degne di molta lode».
Se c’è una differenza vera e profonda tra il barocco e il Rinascimento è proprio questa consapevolezza della propria modernità: che significa anche una tormentata consapevolezza della propria fragilità, della propria relatività.
Un aspetto che potrebbe parere paradossale nell’urbanistica barocca di Torino è come la creatività e la libertà espresse dalle facciate di chiese e palazzi siano incastrate in una scacchiera assolutamente rigorosa. Allo stesso modo, andando oltre le facciate, si scopre che i palazzi furono costruiti improntati alla più pura funzionalità, impiegando materiali per nulla magnificenti, come i classici e “poveri” mattoni. Si tratta di una «contraddizione» puramente locale oppure è riscontrabile anche in altri contesti?
Naturalmente l’uso di materiali meno costosi era assai diffuso, ma questo singolare connubio direi che è molto torinese, sì.
Togliendo dal novero due maestri quali Guarini e Juvarra, quale tra Benedetto Alfieri, Vittone, Plantery e gli altri architetti del barocco piemontese ritiene degno di maggiori attenzioni?
Personalmente trovo le chiese-pagode di Vittone un apice assoluto della fantasia umana.
Quale eredità ha lasciato il barocco nel nostro gusto e nella nostra cultura, cosa si è salvato nel nostro retaggio a distanza di secoli?
Se c’è una differenza vera e profonda tra il barocco e il Rinascimento è proprio questa consapevolezza della propria modernità: che significa anche una tormentata consapevolezza della propria fragilità, della propria relatività. Per gli artisti del Quattro e del Cinquecento, infatti, il confronto con il magistero degli antichi era stato soprattutto teorico: la pittura antica era del tutto perduta, e quel che restava dell’architettura e della scultura non era abbastanza per impaurire quei giovani rivoluzionari. Ma per gli artisti nati dagli anni settanta del Cinquecento in poi, guardarsi indietro doveva essere un vero incubo: perché significava trovarsi faccia a faccia con l’intera opera di Raffaello, Tiziano, Michelangelo, e di moltissimi altri colossi la cui statura non verrà più messa in discussione. Ed è esattamente per questo che con il Seicento inizia un’epoca artistica che possiamo chiamare moderna perché ce ne sentiamo ancora parte.
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